L’architettura è l’adattarsi delle forme a forze contrarie.
— John Ruskin
Onde di calore e intelligenze incarnate: appunti per una sopravvivenza sensibile
Nel grembo incandescente del mondo che viene, il Regno del Bahrain si fa voce rovente e visionaria alla 19ª Biennale di Architettura di Venezia. “Heatwave” — così è stato battezzato il gesto progettuale — non è una semplice proposta espositiva, ma un atto di necessità, una forma di resistenza incisa nel linguaggio dell’architettura, nel suo corpo mutevole, nella sua pelle bruciante.
L'eco del tema scelto vibra già nell’aria che si respira all’Arsenale: uno shock termico che non è solo meteorologico, ma spirituale, percettivo, politico. In una terra dove la temperatura estiva sfiora i 50 gradi, la costruzione non è più ornamento, ma dispositivo di salvezza. Il padiglione, sotto la curatela di Andrea Faraguna, si offre come un organismo respirante, una struttura modulare che impara dal suolo, dai saperi ancestrali, e li reinventa in camini solari, in pozzi geotermici, in sacchi di sabbia disposti come un paesaggio mentale.
«Il nostro obiettivo non è solo esporre, ma interrogare. Non denunciare, ma proporre. "Heatwave" è una chiamata collettiva alla responsabilità architettonica di fronte a un pianeta che si riscalda», ha dichiarato Andrea Faraguna. «Abbiamo bisogno di un nuovo alfabeto progettuale, capace di leggere il presente e riscrivere il futuro».
Qui, l’architettura non rappresenta: agisce. Non abbellisce: lotta. Si fa corpo intermedio tra l’umano e il clima, tra il disastro e l’utopia.
Heatwave si annuncia come un laboratorio esistenziale: un luogo dove la progettazione diviene gesto etico, atto comunitario, interrogazione collettiva su come abitare un mondo che si ritrae, si surriscalda, si trasforma.
Non è una denuncia, ma una domanda aperta. Non una visione distopica, ma la ricerca di una grammatica altra, capace di decifrare l’arsura del presente e tracciare sillabe per un domani abitabile.
Il Bahrain non osserva da lontano la crisi climatica: la attraversa, la subisce, la metabolizza. Desertificazione, carenza d’acqua, vulnerabilità termica sono il pane quotidiano di un’esistenza sospesa tra la tradizione e la soglia dell’ignoto. Per questo, il padiglione non è ornamento né celebrazione, ma campo di prova, cantiere di idee incarnate.
Tra le strategie messe in atto, risuonano memorie di antichi ingegni: torri del vento che sanno leggere le correnti, superfici riflettenti che dialogano con la luce, vegetazione che diventa infrastruttura, ombra che si fa sapere. Tecniche vernacolari, nate dalla consapevolezza lenta di chi ha vissuto il deserto, si intrecciano con algoritmi, simulazioni climatiche, dati digitali. Il passato ritorna non come nostalgia, ma come visione.
«Guardare indietro per sopravvivere in avanti» — suggerisce Eman Ali, tra i curatori. Le architetture del tempo che fu, forgiate in coralità, terra e gesso, ritrovano nel presente una nuova possibilità di dire, di proteggere, di rigenerare.
All’interno della riflessione più ampia della Biennale — “Intelligens. Natural. Artificial. Collective.” — il Bahrain pone una domanda radicale: cosa significa essere intelligenti di fronte al salto termico del mondo?
L’intelligenza qui non è algoritmo soltanto, ma un’alleanza tra sensibilità diffuse: è l’intelligenza del vento, dell’artigiano, del programmatore, dell’anziano che legge le ombre. È il pensiero incarnato nelle mani, nei gesti, nei materiali.
Il padiglione diventa così una soglia, un varco: tra natura e artificio, tra l’io e il noi, tra ciò che sopravvive e ciò che si reinventa.
«Non costruiamo solo edifici — afferma Shaikh Khalifa bin Ahmed Al Khalifa — costruiamo relazioni, possibilità, interdipendenze».
In un’epoca in cui l’architettura non può più permettersi il lusso dell’autonomia, “Heatwave” è insieme atto di accusa e proposta di cura. È un grido sussurrato, un appello silenzioso: trasformare l’urgenza climatica in occasione di ascolto, progettazione, incontro.
Il Bahrain, allora, non mostra: mette in crisi. Non propone soluzioni pronte, ma invita a pensare il calore non solo come minaccia, ma come epifania.
Nel cuore dell’arsura, si forgiano — forse — nuove architetture della speranza e in quel padiglione l’aria fresca viene generata senza elettricità…
“un mock-up a grandezza reale del concetto architettonico: una struttura minimale e modulare, composta da una piattaforma rialzata, un soffitto sospeso e una colonna centrale che funziona contemporaneamente come cornice spaziale e dispositivo climatico. Concepito come un sistema che può essere moltiplicato ed esteso in diversi contesti, il padiglione permette ai visitatori di sperimentare direttamente come l’architettura possa modellare microclimi attraverso forma, materialità e strategie ambientali passive. Più che una istallazione simbolica, si offre come uno spazio abitatile dove dimensioni termiche, atmosferiche e sociali si intrecciano.
Heatwave interpreta lo spazio pubblico come un “bene termico comune”, una risorsa condivisa in cui il comfort climatico diventa espressione di equità sociale. La ricerca progettuale esplora diverse tipologie di spazio pubblico, dai cortili scolastici agli incroci urbani, dai mercati agricoli ai cantieri, suggerendo come strutture modulari e adattabili possano migliorare il benessere collettivo in contesti urbani differenziati.
Attraverso la combinazione di innovazione strutturale, intelligenza ambientale e ricerca sui materiali, Heatwawe apre una riflessione più ambia sul ruolo dell’architettura dell’adattamento, responsiva, porosa e resiliente che recupera il senso del comune non attraverso la chiusura, ma attraverso la generosità e la cura ambientale. Il padiglione non si propone come una soluzione definitiva, ma come un esperimento aperto: una piattaforma per ripensare il modo di progettare, costruire e abitare.”
La più grande minaccia al nostro pianeta è la convinzione che lo salverà qualcun altro.
— Robert Swan
Leone d’oro per la migliore Partecipazione Nazionale al Regno del Bahrain: il Padiglione offre una proposta concreta per affrontare condizioni di calore estremo. Come spiegano i progettisti, “L'architettura deve affrontare la doppia sfida della resilienza ambientale e della sostenibilità. L’ingegnosa soluzione può essere impiegata negli spazi pubblici e nei luoghi in cui le persone devono vivere e lavorare all’aperto in condizioni di calore estremo. Il padiglione utilizza metodi tradizionali di raffreddamento passivo tipici della regione, che richiamano le torri del vento e i cortili ombreggiati.”