Uno degli aspetti più sorprendenti è il modo in cui l’artista utilizza fili — rossi e neri — per tessere reti metaforiche che incarnano legami invisibili. Questi intrecci, sospesi e avvolgenti, agiscono quasi come un sistema nervoso dell’installazione: definiscono percorsi di perdizione e di speranza, segnano la trama fragile dei ricordi, evocano solitudini che si incontrano.
Al MAO, alcune opere iconiche acquisiscono un respiro nuovo proprio perché il museo stesso sembra dialogare con l’intimità spirituale del lavoro di Shiota. Secondo il direttore Quadrio, The Soul Trembles offre ai visitatori un “viaggio interiore, liberatorio e condiviso”. In questo contesto, ciò che appare all’esterno — valigie pendenti, scheletri di barche, vecchi oggetti d’uso quotidiano — si fa manifesto tangibile del vissuto interiore. L’accumulo di valigie oscillanti rimanda al continuo spostarsi dell’identità, al peso dei ricordi che trasportiamo, quasi fossero bagagli dell’anima.
Opere come Where Are We Going? (2017) e Uncertain Journey (2016) sono emblematiche di questa dialettica: la barca diventa simbolo di viaggio — non solo geografico, ma esistenziale — mentre le reti rosse circoscrivono lo spazio come se volessero trattenere non tanto l’oggetto, quanto l’emozione, il desiderio, il timore dell’ignoto. Allo stesso tempo, installazioni come In Silence, con il pianoforte bruciato avvolto da fili neri e sedie silenti, evocano un teatro dell’assenza, un palcoscenico su cui anche il tempo tace, lasciando spazio al respiro sospeso della memoria.
Dal punto di vista filosofico, la mostra è un’esplorazione dell’essere come tessuto relazionale: Shiota sembra dire che la nostra identità non è mai solida, ma sempre intrecciata con l’altro, con il passato, con le cose che abbiamo perduto o lasciato indietro. L’installazione diventa allora metafora cosmica di un universo interiore in continua espansione e contrazione, un luogo dove il visibile è solo la superficie di un abisso emozionale.
Esteticamente, il contrasto tra il rosso vibrante e il nero opprimente non è mai gratuito: è una danza di tensioni, un dialogo tra vita e morte, speranza e angoscia, presenza e assenza. Le installazioni monumentali non restano semplici oggetti d’arte, ma diventano scenografie esistenziali, scenari spirituali in cui il visitatore è chiamato non solo a osservare, ma a sentirsi parte.
In termini esistenziali, la mostra offre una forma di catarsi: accogliere quelle reti significa anche accogliere la propria vulnerabilità, riflettere sul proprio percorso, riconoscere che le nostre valigie interiori — i traumi, i ricordi, i sogni — formano una contrattura in cui siamo continuamente sospesi. È un’esperienza che non solo emoziona, ma trasforma, perché spinge chi guarda a elaborare un proprio rapporto con il tempo che passa, con la perdita e con la connessione.
Infine, il fatto che questa mostra arrivi per la prima volta in Italia — e per la prima volta in assoluto in un museo di arte asiatica — conferisce al gesto curatorio un significato ulteriore: non è solo un tributo a un’artista di fama internazionale, ma un’occasione per interrogarsi su come la cultura e l’arte possano tessere ponti tra mondi, tra interiorità, tra sensibilità profondamente diverse.
The Soul Trembles al MAO è un poema visivo e spirituale, un invito al silenzio e alla meditazione. È un’esperienza che lascia un’eco, un tremore che persiste anche dopo aver lasciato la sala. Una mostra che non si limita a esporre, ma penetra, tocca, connette — un’autentica manifestazione dell’arte come esperienza esistenziale.