La violenza è l’ultimo rifugio degli incapaci.
Isaac Asimov
Nel tentativo di restituire la realtà di un episodio che ha segnato la coscienza collettiva, 40 Secondi di Vincenzo Alfieri si muove su un crinale difficile: quello tra la denuncia civile e la ricostruzione cinematografica. Il film aspira a essere un racconto corale, diviso in segmenti che ritornano in una struttura trasversale che ripercorre più volte le stesse ore da punti di vista differenti. È un espediente narrativo che, pur non privo di una certa originalità formale, finisce per generare una sensazione di reiterazione, come se l’ossessione per la ricostruzione impedisse qualsiasi autentica apertura verso l’imprevisto.
Tra i vari nuclei narrativi, quello che risulta più compiuto è indubbiamente quello dedicato ai gemelli. Alfieri riesce qui a scavare con maggiore lucidità nelle dinamiche familiari, nella loro ambiguità domestica, e nel contesto di un’indagine che svela progressivamente i traffici illeciti nascosti dietro attività apparentemente rispettabili. È in questo segmento che il film raggiunge un equilibrio raro: tra cronaca e analisi morale, tra verosimiglianza e tensione narrativa. Altrove, invece, il racconto si disperde in scene che, pur animate da buone intenzioni, appaiono convenzionali, spesso gravate dal peso del già visto.
La rappresentazione della “notte”, della musica forte come sfondo inevitabile di “eccedenze”, ubriachezza, litigi, droga (anche se non esplicitato) appare già vista. Queste scene rischiano di diventare dei topos: le luci intermittenti, il rumore, la tensione che monta, l’attesa del momento in cui “scoppia qualcosa”. In 40 Secondi queste sequenze sono utili a costruire atmosfera, ma allo stesso tempo mancano di originalità, sembrano elementi “di mestiere” più che veri scorci di vita vissuta.
La discoteca, l’incubo, la rabbia giovanile, il linguaggio triviale, la violenza improvvisa: tutto è rappresentato con un’evidenza quasi programmatica, come se il film volesse restituire al reale la sua crudezza, ma finendo per amplificarne la superficialità. Quella che dovrebbe essere una radiografia del vuoto generazionale scivola talvolta in un’estetica della ripetizione, dove l’assenza di senso è raccontata senza inquietudine.
La veridicità documentaristica, pur animata da un intento realistico, diventa a tratti stucchevole, persino fastidiosa. È una sensazione che, paradossalmente, corrisponde alla stessa natura del reale che il film rappresenta: un reale greve, sciatto, ossessivamente esibito nella sua brutalità quotidiana. Alfieri non lo edulcora, ma nemmeno lo trascende. Resta così intrappolato nella dimensione più epidermica del racconto sociale, come se l’urgenza di restituire i fatti impedisse l’emergere di uno sguardo perturbante.
Pur con una durata non indifferente (due ore circa) il film sembra voler intrecciare molti fili. Questo è ambizioso e soprattutto rischioso e in alcuni momenti il racconto perde in coesione: qualche scena diventa ripetitiva, o gli sforzi di costruire tensione sembrano diluiti da sequenze che non portano avanti realmente la narrazione. Alcuni personaggi secondari possono risultare abbozzati, solo funzionali alla diluizione.
Un merito va riconosciuto: 40 Secondi evita la deriva patetica, rifiuta la commozione facile e non cede al sentimentalismo di maniera. Tuttavia, nella ricerca di autenticità scivola spesso nel suo opposto: la volgarità come linguaggio dominante, lo stereotipo come scorciatoia di senso. È una caduta comprensibile, forse inevitabile, ma non per questo giustificabile. Raccontare il vuoto, la violenza, l’ignoranza e la rozzezza contemporanea non significa necessariamente riprodurle; richiede, anzi, uno sguardo capace di trasfigurazione, di distanza critica.
In questo senso, 40 Secondi resta un film diviso tra urgenza etica e limite estetico: un’opera che tenta di restituire il caos del presente ma che ne rimane intrappolata, senza riuscire a sublimarlo in una forma realmente nuova. La sua originalità strutturale e la cura del montaggio non bastano a compensare la prevedibilità di molte immagini e la retorica implicita di un racconto che si affida troppo al realismo e troppo poco alla visione. Forse la sfida vera sarebbe stata proprio quella: trovare un modo raffinato – o quantomeno consapevolmente “sofisticato” – di parlare della brutalità del mondo senza riprodurne la stessa lingua.
La barbarie non è l’opposto della civiltà, ne è il suo prodotto.
Theodor W. Adorno