Allly baqi mink

Tutto Quello Che Resta Di Te

Cherien Dabis

Drama • 2025 • 2h 25m

Allly Baqi Mink

Questo film è stato presentato a Film Festival Villa Medici 2025

Tre epoche si intrecciano nel destino di una famiglia palestinese. Nel 1988, durante la Prima Intifada, l’adolescente Noor viene ferito da un colpo d’arma da fuoco israeliano. La madre, ormai anziana, decide di affidare a un interlocutore la memoria di ciò che li ha segnati. Il racconto riporta al 1948, a Jaffa, quando il nonno Sharif viene incarcerato per aver difeso la propria terra dopo il ritiro britannico. Nel 1978, in un campo profughi in Cisgiordania, è il turno di Salim, figlio di Sharif, costretto a subire l’umiliazione di un soldato davanti a Noor, esperienza che segnerà il ragazzo e le scelte future dei genitori.

Recensito da Beatrice 12. September 2025
Quando ti chiedo chi sei, raccontami la musica che hai ascoltato, gli incontri che ti hanno stupito, le occasioni che hai sprecato, i fiumi che hai risalito. Allora saprò chi sei.
 — Fabrizio Caramagna 
 
 
L’opera di Dabis dipana la sua tela su tre generazioni palestinesi, intrecciando passato, presente e attesa. Il dramma non è episodico: è la storia di come il passato non muoia mai del tutto, ma infesti il presente, lo modelli, ne generi sensazioni quotidiane che sembrano trovare il silenzio solo nella memoria condivisa.
La madre (Hanan) parla allo spettatore non come semplice narratrice, ma come portatrice di un’eredità che è anche un grido per non dimenticare, per non cancellare. La famiglia diventa custode, non solo di ricordi ma di ferite e responsabilità — una struttura che sostiene l’identità, ma la comprime anche, la espone.
 
“Che succede quando il passato non è ancora passato?” si chiede la regista stessa: la domanda sta al centro non solo della trama, ma della struttura concettuale del film. Il trauma non rimane confinato al vissuto individuale, ma diventa sistema di trasmissione emotiva e culturale: sradicamento, perdita di casa, umiliazione, lotta.
 
Qui la figura del padre si fa nodo cruciale: l’episodio dell’umiliazione subita da parte dell’esercito occupante, davanti agli occhi del figlio, incide come una ferita insanabile. Non è solo un fatto di dignità spezzata: è l’istante in cui il rapporto padre-figlio si incrina, e da lì prende forma la radicalità delle scelte del giovane, come se quel gesto imposto dal potere militare avesse scolpito un destino di ribellione.
 
Il figlio Noor, ferito durante una protesta e colpito al capo, rimane in morte cerebrale: il suo corpo diventa campo di un’ulteriore battaglia morale. La famiglia deve decidere sulla donazione degli organi in territorio israeliano. La madre vede in questo un atto di vita, una continuità possibile, un modo di trasformare la perdita in resistenza vitale; il padre invece resta lacerato dal dubbio: “e se il cuore di mio figlio andasse a un soldato israeliano, a chi ha in mano le armi che ci opprimono?”. Non vuole sapere a chi andranno gli organi, mentre la madre desidera incontrare chi li riceverà. In questa tensione non c’è solo un conflitto privato: c’è la rappresentazione di un dilemma universale, quello tra il desiderio di non interrompere il flusso della vita e l’impossibilità di separarlo dal contesto politico che lo avvolge.
 
Il film, pur radicato in un fatto storico – Nakba, Intifada, rifugi, occupazione –, si sottrae alla facile polarizzazione. Non è propaganda fine a sé stessa, né vuole imporre una verità univoca: piuttosto offre uno specchio, un punto di vista,  il punto di vista palestinese, intimo, corporeo, interiore, che rende visibili dettagli troppo spesso trascurati nei racconti globali.
 
Si potrebbe dire che il film pratica una filosofia del visibile: mostra la guerra non solo come evento esterno, ma come qualcosa che attraversa il corpo, il linguaggio, le relazioni. Mostra la differenza tra colpa politica e responsabilità umana, tra vittima e sopravvissuto. E in questo modo smonta le semplificazioni: “i palestinesi non sono Hamas” diventa non slogan, ma una verità incarnata, vissuta, che emerge dalla concretezza.
 
Proprio il titolo – Tutto quello che resta di te – suona come un interrogativo: che cosa rimane quando tutto è logorato dal conflitto, dalle generazioni, dal trauma.
Cosa resta delle origini, della casa, della storia.
Come può qualcuno appartenere a sé stesso quando la propria terra, la propria lingua, la propria memoria sono oggetto di offesa, di esilio.
 
Il corpo del figlio diventa simbolo estremo di questa domanda. La morte cerebrale, l’assenza di ritorno, eppure la possibilità che dal suo cuore e dai suoi organi nascano altre vite: la vita che si mescola con il paradosso politico. È l’ultimo bivio, l’ultima testimonianza: amare significa ancora dare, anche quando non si può scegliere a chi.
 
Eppure, proprio mentre tutto sembra perduto, i coniugi decidono di tornare a Jaffa, il luogo delle loro origini: un ritorno che può avvenire solo nella veste paradossale di turisti, grazie alla cittadinanza canadese ottenuta altrove. Quel ritorno impossibile e ritardato, filtrato dalla condizione di “ospiti” nella propria terra, diventa la più amara delle immagini: la patria che resta irraggiungibile se non travestita da esilio.
 
C’è qualcosa che resta: resilienza, pietà, umanità rassegnazione. C’è la scelta di essere testimoni, di narrare, di testimoniare.
 
Tutto quello che resta di te  è un invito a restare, a ricordare, a guardarsi dentro come comunità e come individui. È un atto politico non di propaganda, ma di rifiuto del silenzio. È una storia del dolore come troppe storie lo sono, di volti, di legami, di memoria.
 
Rimane l’eco di ciò che resta perché non si lascia andare. Non si può. 
 
Sono quello che sono: un po’ quello che ero, non ancora quello che sarò, un frammento di quello che vorrei
— Fabrizio Caramagna  
 
 
 
 

Questo film era in concorso ufficiale di Film Festival Villa Medici 2025

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