Amélie et la métaphysique des tubes

La Piccola Amélie

Liane Cho Han Jin Kuang Mailys Vallade

Animation • 2025 • 1h 15m

Amélie Et La Métaphysique Des Tubes

Questo film è stato presentato a Cannes Film Festival

Il viaggio di Amélie attraverso l’infanzia è attraversato da presenze che non sempre la comprendono: i genitori belgi incapaci di decifrare i suoi silenzi, le regole culturali giapponesi. Il film mette in scena il fraintendimento come sostanza stessa dell’esistenza. Essere vivi, sembra suggerire la regia, significa imparare a muoversi dentro spazi che non coincidono mai del tutto con ciò che siamo o ciò che vorremmo essere.
Libero adattamento del romanzo di Amélie Nothomb La metafisica dei tubi, non è semplicemente un racconto di formazione raccontato con colori sgargianti e ritmo lieve: è un piccolo trattato visivo sul peso del nulla, sulla fragilità del primo sguardo umano e sul modo in cui l’esistenza si manifesta lentamente, come un suono che impara a farsi voce.
Qui la metafisica è ironica ma radicale: l’essere umano nasce come cosa, non come soggetto. La coscienza non è un dato naturale, ma un evento tardivo.

Recensito da Beatrice 13. December 2025
Il mondo inizia là dove comincia un altro sguardo.
Claude Lévi-Strauss

La protagonista, nei primi anni di vita, non è ancora una persona: è una presenza inerte, un tubo, Dio, una creatura che osserva senza vedere e assorbe senza interpretare. Il film approfondisce questa condizione originaria con un’ironia limpida, quasi clinica, trasformandola in una domanda che ritorna lungo tutta la narrazione: quando si è davvero vivi?
 Non nel momento in cui si aprono gli occhi – quelli li aprono tutte le creature – ma quando nasce lo sguardo, quell’atto misterioso con cui il mondo smette di essere un insieme di forme e diventa una storia, un gesto, un dolore, una promessa.

Eppure Amélie non è un racconto cupo. Al contrario: la sua forza sta nel trasformare concetti difficili – il nulla, la separazione, la morte, l’incomunicabilità – in figure poetiche che scorrono con la leggerezza di un acquarello. La piccola protagonista attraversa l’esperienza del trauma e dell’assenza con la medesima curiosità con cui scopre la possibilità della gioia. Ogni dettaglio – un giardino, una carpa, un oggetto quotidiano – diventa il supporto di una meditazione sul fatto che la vita non è mai pura presenza: è sempre ciò che resta dopo una perdita, ciò che si impara proprio mentre qualcosa ci sfugge.

La scena del cioccolato bianco è centrale perché introduce qualcosa di decisivo: il piacere. E con il piacere, il desiderio. È qui che avviene la vera nascita. Il desiderio spezza la perfezione immobile del tubo-Dio. Da quel momento in poi, l’essere umano è condannato alla mancanza, al confronto con il mondo, al linguaggio, al tempo. In termini filosofici: la coscienza nasce come ferita.
Diventare “io” significa perdere l’assoluto.

Il concetto più potente, che il film restituisce con una sorprendente limpidezza filosofica, è che non basta avere occhi per vedere. Gli occhi sono strumenti: aprono la porta. Lo sguardo è la scelta, l’interpretazione, l’intensità con cui un essere vivente decide di abitare ciò che gli appare. È lo sguardo che crea la differenza tra un mondo muto e un mondo vivo. Ed è lo sguardo, nella progressiva presa di coscienza di Amélie, a segnare il passaggio dal tubo alla persona, dall’automatismo alla libertà.

Sotto la leggerezza dei colori e sotto la grazia del tratto animato, Amélie lascia intravedere una verità più rara, quasi un avvertimento sussurrato: la nascita dello sguardo non è soltanto un atto di conquista, ma anche una condanna.
Nel momento in cui la protagonista impara davvero a guardare, scopre che ogni cosa che esiste porta con sé la propria ombra, che la bellezza è inseparabile dalla possibilità della perdita, che il mondo non offre mai appigli stabili ma solo superfici che si sgretolano al tatto.

La sua presa di coscienza non è un’apertura trionfale; è un lento scivolare nel riconoscimento che l’esistenza non è un ordine, ma una fenditura. Il film suggerisce che il passaggio dal nulla alla vita comporta un prezzo: la consapevolezza di essere creature esposte, costrette a misurarsi con una realtà che non risponde e che spesso non vede.
 Si vive, sembra dirci l’ultimo sguardo della piccola Amélie, soltanto nella misura in cui si accetta la vertigine di questo disallineamento permanente.

 Il modo in cui guardiamo determina quello che vediamo.
John Berger
 
 
E così il suo cammino non si chiude con una morale, ma con un dubbio: forse l’unico vero atto di libertà è continuare a guardare anche quando ciò che appare non offre alcuna promessa.
 Forse la vita non è altro che questo: un occhio che impara a sostenere il peso del proprio sguardo, sapendo che ciò che rivela non sarà mai del tutto comprensibile, e che in quella frattura — dolorosa, luminosa — prende forma l’unicità irripetibile dell’essere vivi.
Alla fine del film, non assistiamo a una semplice crescita: assistiamo alla nascita di una coscienza che comprende che la vita non è fatta per essere capita, ma per essere attraversata con uno sguardo capace di dare senso anche al vuoto.
 Un cartone animato, sì. Ma anche una parabola sull’esistere, sullo stupore, sull’impossibilità di coincidere con ciò che si vede e, proprio per questo, sull’incognita di continuare a guardare.

L’occhio vede soltanto ciò che la mente è pronta a comprendere.
Henri Bergson
 
 
 

Questo film era in concorso ufficiale di Cannes Film Festival

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