Dove tutti mentono, nessuno si fida più di nessuno. E così il potere può governare indisturbato.
Hannah Arendt
Ci sono film che scivolano leggeri come una cartolina natalizia e altri che, invece, usano la neve come carta vetrata. L’anno nuovo che non arriva appartiene saldamente alla seconda categoria: un racconto che parla del Capodanno come di un miraggio burocraticamente negato, un diritto sospeso tra l’inerzia dello Stato e la tenacia infantile. Mureșanu, con la sua regia asciutta e minimalista, costruisce una parabola sulla pazienza dei vivi intrappolati nella logica dei poteri che regolano i morti.
Intreccia sei esistenze “minori”: tutte vite ordinarie, segnate da speranze piccole — un appartamento accogliente, una fuga verso la libertà, una recita natalizia — ma sospese sul crinale dell’abisso politico. Quel confine tremolante tra “vita normale” e “catastrofe annunciata”.
L’opera si muove come un trattato esistenziale travestito da fiaba: la vita, qui, non fluisce ma ristagna; il futuro non arriva, resta sospeso come un pacco smarrito. L’onnipresente apparato burocratico – impersonato da funzionari che sembrano usciti da un gabinetto kafkiano dove la luce al neon ha smesso di funzionare – recita la parte di un oracolo stanco, incapace di prevedere perfino il cambio della data. Mureșanu osserva questi meccanismi con sarcasmo misurato: non c’è caricatura, ma una malinconica comicità che affiora nei dettagli – gli annunci ripetuti, i moduli inutili, le scuse sempre uguali.
Il film non veste i suoi protagonisti da eroi sovrumani: si tratta di gente che pianta cartelloni, cambia appartamenti, scrive lettere a Santa, organizza show di fine anno. Ma è proprio in questa “normalità distorta” che Mureșanu trova la sua potenza narrativa — come un grottesco teatro dell’assurdo in cui l’intero sistema viene smascherato.
E quando, finalmente, sull’onda disordinata della Storia, scoppia un petardo — nelle mani di una coppia improbabile — e la rivoluzione esplode, è come se la banalità di tutte quelle esistenze si sollevasse in una vibrazione collettiva: la fine di un mondo, e l’inizio di niente di garantito.
Politicamente, il film è una fiondata elegante: ci ricorda come i poteri forti sappiano fare ciò che fanno da sempre – trasformare l’attesa in un metodo di controllo. Se il nuovo anno non arriva, il vecchio rimane. E con lui, rimangono i suoi riti vuoti e le sue promesse congelate. La festa diventa così un esperimento sociale di immobilità forzata, un capolavoro di stagnazione organizzata.
Come in ogni dittatura — e come in certi regimi contemporanei sotto mentite spoglie — il potere sopravvive sulla menzogna, sulla paura, sul controllo del silenzio. Eppure, in un sistema del genere, persino una lettera ingenua a Babbo Natale può diventare atto di sovversione, un gesto di verità che scuote le fondamenta.
Le dittature si fondano sul non detto. La verità è un atto di vandalismo.
Danilo Kiš
Il film è un monito. È la denuncia che i “regali” che chiediamo — libertà, dignità, umanità — non arrivano mai da chi sta in alto: devono nascere dal basso, dal coraggio di chi osa scrivere, parlare, sperare.
In questo senso, L’anno nuovo che non arriva diventa una parabola universale: sull’abuso, sulla cecità del potere, sulla fragilità di chi sogna. Ma anche sulla potenza — quasi comica, quasi parossistica – di chi detiene il potere, ignaro in malafede, di tutto quello che può accadere.
Ogni forma di potere è una caricatura di sé stessa.
Emil Cioran
La libertà non si conquista: si riconquista.
Mircea Eliade