“Io sono lo strano che naviga nel fiume della solitudine” (Liu Chunhe)
Liu Chunhe è un ventenne affetto da paralisi cerebrale “il più antico mistero della neurologia”.
La sua esistenza è un continuo attraversamento di limiti imposti dalla realtà fisica e da una società ancora incapace di confrontarsi con la diversità in termini di pari dignità. La sua storia non è quella di una “vittoria sulla disabilità” o di un eroismo artificiale, ma piuttosto un’indagine sottile e rigorosa sulle modalità in cui si costruisce un’identità autentica dentro il labirinto della marginalità e delle relazioni famigliari.
Chunhe non desidera semplicemente essere accettato: egli pretende, con calma, fermezza e indefesso impegno, rivendicare i diritti di chi sa cosa significhi vivere una vita intera da disabile, di essere riconosciuto come persona “normale” nelle sue aspirazioni, nelle sue ambizioni e nelle sue capacità intellettive. Questa parola — “normale” — risuona come una rivendicazione politica prima ancora che personale, un monito contro la riduzione a immagine pietistica o alla segregazione affettiva. Chunhe desidera frequentare un’università “normale”, insegnare una poesia ai bambini, lavorare con dignità, amare e essere amato, vivere la sessualità magari con Yaya che gli ha concesso attenzione, scontrandosi con il rifiuto e il pregiudizio, camminando con le proprie gambe in un mondo che continuamente gli nega questa possibilità.
Vuole anche fare il barista dimostrando che memorizza il menù leggendolo pochi minuti e recitando giochi di parole difficilissimi, mentre quella “sostenibilità” di facciata sfrutta la sua alterità strumentalizzandola.
Il gatto randagio Dio Tuono, raccolto in strada, è morto e le sue ceneri sono conservate in una scatola di latta: camminava come lui Tuono, aveva solo tre zampe. Chunhe spesso dorme abbracciando uno scheletro, lo faceva già da bambino.
Il film affronta con equilibrio e senza indulgere al patetismo la tensione tragica tra l’egoistica iperprotezione di una madre che vorrebbe limitare la libertà del figlio e della nonna che, con la sua forza quasi ancestrale, incarna un’idea di amore che non si rassegna a confini o rinunce. Questa dialettica familiare è il cuore pulsante del racconto, un luogo di conflitto tra la nonna e la madre e tra la madre e il figlio: un conflitto di possibilità dove il corpo fragile e inarrestabile di Chunhe diventa il centro di un discorso più ampio sulla responsabilità, sulla paura e sulla speranza.
Lui, abilissimo alla tastiera, che aiuta gli anziani amici della nonna a sbrigare pratiche burocratiche online con le quali dimostrare che si è vivi per continuare a prendere la pensione.
Visivamente sobrio, quasi minimalista, Big World evita effetti retorici. La macchina da presa indugia con rispetto sulle piccole azioni, sulle espressioni, su quei gesti quotidiani che si caricano di un valore simbolico. La calligrafia imperfetta, il gesto di alzarsi per far sedere una signora, la poesia recitata ai bambini con occhi che cercano attenzione e comprensione: sono dettagli che costruiscono un universo umano complesso, fatto di fragilità e di resistenza.
Chunhe è un viaggiatore solitario nel fiume della solitudine, come scrive egli stesso nelle sue poesie. Il film accompagna questo viaggio con una narrazione che, pur nell’apparente semplicità, si apre a interrogativi universali sul senso della vita, su un rifiuto percepito, quello della madre, sulla normalità, sulla dignità di chi vive la diversità dal paradigma dominante.
Big World non si risolve in una storia di redenzione individuale, ma si fa espressione di una crisi culturale e politica: in che misura la società è pronta a riconoscere la differenza come elemento fondante dell’umano? Qual è il peso dell’egoismo adulto, della paura del diverso, della perdita di sguardi che vedono davvero difronte a quelli che ti mostrano solo disgusto, paura, pietà.
Big World di Yang Lina si presenta come un’opera di rara profondità e coerenza stilistica, un racconto che sfida le categorie convenzionali del cinema sulla disabilità per trasformarsi in una meditazione esistenziale sulla condizione umana, la dignità e la libertà.
Questo film è un invito estremo a riflettere, senza concessioni al sentimentalismo, su ciò che significa vivere una vita degna, quando il corpo si fa limite ma anche via di esplorazione. Una narrazione di spessore esistenziale che, grazie a un cast impeccabile e a una regia strategica, si impone come un’opera radicale.
“Il boia sul ponte sta uccidendo i sogni” ( Liu Chunhe)
Presentato alla Settimana del Cinema Cinese a Roma presso Anica dal 23 al 27 giugno 2025.
Un imperdibile appuntamento con la cinematografia cinese contemporanea con una selezione di nove film che spaziano per tematiche e genere offrendo al pubblico uno sguardo autentico, emozionante e sorprendente sul cinema cinese dell’ultimo biennio.