Il teatro è il primo saggio della vita, e la vita è la prova generale del teatro.”
— George Bernard Shaw
Pippo Delbono con “Bobò” costruisce un’opera che è prima di tutto un risveglio: risveglio della dignità, della voce (anche se muta), e della presenza umana. Il documentario non mira a una pietà consolatoria, ma a una meditazione radicale sulla diversità: un uomo, privato dei mezzi comuni di linguaggio, diventa portavoce di un universo interiore che sfida le categorie convenzionali del teatro e della vita.
Il rapporto tra Delbono e Bobò è il cuore pulsante del film: non è solo un mentore che “salva” un attore, ma un compagno di viaggio. Delbono racconta di aver imparato una lingua nuova, fatta di gesti, sguardi, silenzi. Ogni giorno era una sfida, una rivoluzione personale, anche per il regista: “ogni giorno dovevo cambiare qualcosa, mi imponeva sempre una trasformazione”. Questa trasformazione è al centro del film e diventa metafora di un’esperienza estetica ed esistenziale: la diversità come sorgente di creatività, non come deficit da colmare.
La struttura del documentario, che alterna filmati d’archivio a nuovi momenti girati tra Napoli, Aversa e altri luoghi, conferisce al racconto una dimensione temporale fluida. Non si tratta di una biografia lineare, ma di un ritratto che emerge per frammenti, come un mosaico: spettacoli teatrali, momenti privati, viaggi condivisi. Questa scelta narrativa richiama l’idea che l’identità non sia un monolite, ma una danza tra memoria e presente.
Sul piano visivo e sonoro, la musica di Enzo Avitabile aggiunge un’ulteriore tensione poetica: il ritmo, pur nei limiti della parola mancante, diventa il veicolo di una comunicazione primordiale, quasi arcaica. Il montaggio è calibrato, mai eccessivo: lascia spazio al respiro, al silenzio, all’intuizione. La voce narrante di Delbono è discreta, non encomiastica: non glorifica Bobò, ma ne testimonia la grandezza con pudore.
Ci sono domande che attraversano il film come un controcanto segreto, domande che Delbono rivolge prima a sé stesso che allo spettatore: di che cosa abbiamo paura? Della vita che preme, dell’amore che resta o che svanisce, del vuoto che si apre quando una presenza come quella di Bobò non c’è più. Paura di camminare senza di lui, di non saper più abitare la leggerezza, di ritrovarsi soli in mezzo al rumore del mondo. “Voglio gente, ho bisogno di gente”, sembra dire Delbono, come se il teatro fosse ancora l’unico luogo dove la solitudine si incrina, anche solo per un istante.
Bobò non aveva il senso del tempo: ogni tanto gli organizzavano un compleanno, quasi ottantadue anni, come se l’età fosse un titolo di dignità o un appiglio nella confusione. Delbono ricorda un aneddoto in particolare, in Germania: gli chiedevano spiegazioni, volevano “capire”, incasellare il mistero di quel teatro. Ma lui rispondeva che non tutto è destinato a essere compreso. E fu allora che Bobò prese il microfono e improvvisò un discorso, un flusso di suoni e intenzioni che nessuno poté tradurre, ma che tutti compresero. Lo applaudirono perché in quel gesto c’era il teatro nella sua essenza: un apparire che non spiega, un atto che basta a sé stesso, un mistero che si offre.
Il film porta con sé anche il peso dell’assenza. Bobò è morto, e da cinque anni Delbono non ascolta più la sua voce. Nel documentario si sovrappone un lamento, una musica che accompagna l’immagine del cimitero, mentre scorrono le date: 1936–2013. Vincenzo Cannavacciuolo, in arte Bobò. Un nome restituito alla terra, poi riportato – simbolicamente – nel manicomio di Aversa, dove non è rimasto più nulla: stanze vuote, corridoi che trattengono un’eco impercettibile, il fantasma di un luogo che ha segnato un’intera esistenza. Il film registra questo vuoto, non per colmarlo, ma per riconoscerne la forza.
Delbono racconta che danzava per vivere, per evadere dalla prigione che ognuno porta in sé. Ora è lui a danzare “come Bobò”, a far riaffiorare nella propria gestualità una continuità che non è imitazione, ma fedeltà. Una poesia brasiliana – citata a un certo punto – sembra riassumere il loro incontro: ognuno ama come può, ognuno porta in sé ciò che è, e il miracolo consiste forse nell’essere ancora capaci di felicità, nonostante tutto.
Tutto ciò che si può sapere, alla fine, è che occorre proseguire: camminare come pellegrini del mondo, attraversare le ombre, attendere un risveglio che forse non arriverà mai del tutto. Le immagini di repertorio si alternano alle riprese nei luoghi del manicomio, mentre una voce canta “salvami”, ( Ligabue/Avitabile). Non è un’invocazione religiosa, ma un gesto umano: la richiesta di non essere dimenticati, di rimanere nel flusso del mondo anche quando la scena si oscura.
Il film ha una forte valenza etica e politica: raccontare Bobò significa interrogarsi sulle istituzioni che escludono, sulla marginalità, su cosa significhi “umanità” se non può essere tradotta nelle forme consuete del discorso. In questo senso, “Bobò” diventa un atto di resistenza: non solo contro la stigmatizzazione, ma contro ogni forma di riduzione dell’essere umano a ciò che è visibile, convenzionale, comprensibile con facilità.
L’opera ha una potenza lirica che raramente si incontra nei documentari sociali: c’è una tensione verso l’assoluto, una ricerca di bellezza che non è fuga, ma accettazione del limite. Bobò non è raffigurato come “eroe tragico” né come “caso da studiare”: è mostrato nella sua interezza, con la sua presenza enigmatica e al contempo intensa. È un maestro di un teatro che sorge dal silenzio, un teatro che non spiega, ma rivela.
La vita è un enorme palcoscenico: qui ciascuno recita la sua parte finché non è chiamato a uscire.”
— William Shakespeare