È vero che non sei responsabile di quello che sei, ma sei responsabile di quello che fai di ciò che sei.
—Jean-Paul Sartre
Nel cinema di Michael Haneke lo sguardo non è mai innocente. È un atto che implica sempre una scelta, e dunque una responsabilità. Caché (2005), tradotto in Italia con Niente da nascondere, si erge come uno dei suoi manifesti più radicali: un’opera che non offre protezioni, che obbliga a vedere e, soprattutto, a interrogarsi sul proprio ruolo di spettatore e di individuo immerso in una rete di relazioni, storiche e personali, dalle quali non è possibile sottrarsi.
La vicenda di Georges Laurent, conduttore televisivo parigino, inizia con un’inquadratura apparentemente priva di eventi: la facciata della sua casa. Una fissità che si rivela subito inganno — non stiamo guardando attraverso la cinepresa di Haneke, ma attraverso la lente di un anonimo osservatore che ha inviato quella registrazione a Georges e alla moglie Anne. Il passato di Georges, rimasto fino a quel momento sepolto sotto il decoro borghese, riemerge senza preavviso, e lo costringe a confrontarsi con un atto di ingiustizia commesso da bambino nei confronti di Majid, figlio di immigrati algerini.
Il tema della responsabilità percorre il film in due direzioni complementari. La prima è intima: la colpa che Georges ha tentato di negare non si dissolve col tempo, ma si deposita come un sedimento nella memoria, pronta a riaffiorare in ogni crepa dell’ordine apparente. La seconda è collettiva: la vicenda personale si innesta nella più ampia rimozione storica del massacro del 17 ottobre 1961, quando la polizia francese represse brutalmente una manifestazione di algerini a Parigi. Haneke non unisce questi due livelli con un discorso esplicito; lascia invece che lo spettatore avverta la loro risonanza sotterranea, percependo come la responsabilità individuale sia inseparabile dalla responsabilità storica.
La maggior parte delle persone non vuole davvero la libertà, perché la libertà implica responsabilità e la maggior parte delle persone ha paura della responsabilità.
— Sigmund Freud
In questa prospettiva, il film sembra dialogare con il pensiero di Emmanuel Levinas, per il quale l’altro è sempre un volto che ci interpella, che chiede una risposta che non possiamo eludere, e con Hannah Arendt, che ha mostrato come la rimozione della responsabilità personale — anche in contesti collettivi — costituisca la radice di ogni complicità morale. Allo stesso tempo, l’estetica della sorveglianza di Haneke evoca Michel Foucault e la sua analisi del panopticon come paradigma di un potere che osserva senza essere visto, trasformando la visione in strumento di controllo.
La regia costruisce questo discorso attraverso un’estetica della sorveglianza: piani fissi prolungati, immagini che possono provenire tanto dalla diegesi quanto dallo sguardo dell’“altro” non identificato, silenzi che amplificano il disagio. In Caché, essere osservati equivale a essere chiamati a rispondere — non necessariamente davanti a un tribunale, ma davanti a sé stessi. La videocamera anonima è un dispositivo di verità: non rivela “chi” accusa, ma rende impossibile continuare a fingere di non essere coinvolti.
Haneke si muove in un territorio in cui la responsabilità non ha bisogno di prove materiali per esistere. Georges non è perseguitato da un crimine legale, ma da un debito morale. Quando Majid, ormai adulto, decide di togliersi la vita davanti ai suoi occhi, non compie un gesto spettacolare: compie un atto che ricade interamente sulle spalle di Georges, senza possibilità di mediazione o giustificazione. L’assenza di musica, l’inquadratura ferma, la crudezza non filtrata del gesto costringono lo spettatore a condividere la posizione del protagonista — una posizione di testimone che, proprio in quanto tale, non può dichiararsi neutrale.
Il film interroga anche il rapporto tra responsabilità e trasmissione generazionale. L’ultima scena, con l’incontro tra il figlio di Georges e il figlio di Majid davanti alla scuola, non chiarisce se vi sia riconciliazione, complicità o conflitto. È un’immagine che disloca l’attenzione dal passato al futuro: la colpa può essere ereditata? È possibile interrompere il ciclo della rimozione? La risposta non viene fornita, perché Haneke rifiuta il conforto di una chiusura narrativa. Il pubblico è lasciato nello spazio sospeso dell’incertezza, lo stesso spazio in cui si decide se assumersi la responsabilità di guardare — e agire — oppure voltarsi altrove.
A distanza di vent’anni dalla sua uscita, Caché conserva intatta la sua forza dirompente. È ancora un’opera capace di spiazzare, di generare disagio, di mettere in crisi lo spettatore che cerca soluzioni facili. La sua lucidità è forse ancor più perturbante oggi, in un’epoca in cui la sorveglianza è diventata invisibile, diffusa, partecipata, e in cui la responsabilità sembra dissolversi nella molteplicità degli sguardi.
* Caché* non è un film sul mistero dell’identità di chi osserva, ma sul mistero della nostra disponibilità ad assumerci il peso di ciò che vediamo e di ciò che abbiamo causato. È un cinema che non separa mai etica ed estetica, che riconosce nello sguardo un atto politico e nella memoria un territorio instabile. Haneke, con lucidità implacabile, ci ricorda che il vero pericolo non è essere osservati, ma continuare a vivere come se non lo fossimo.
L’uomo è condannato a essere libero: condannato perché non si è creato da sé stesso, e pur tuttavia libero, perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò che fa.
— Jean-Paul Sartre