Cerrar los ojos

Cerrar Los Ojos

Victor Erice

Drama • 2023 • 2h 49m

Questo film è stato presentato a Cannes Film Festival

Nel 1990, Julio Arenas, un attore di grande fama, sparisce misteriosamente durante le riprese di un film: il mare, l’ultimo ciak, un corpo mai ritrovato. Gli anni passano, il caso sembra rimosso, archiviato. Ma poi, in un presente intriso di nostalgia, un programma televisivo decide di riaprire la vicenda: emerge un’eco del passato, frammenti filmati delle ultime scene — le immagini che Arenas aveva affidato al suo caro amico regista, Miguel Garay. È così che emerge non tanto un’indagine, quanto un rito: Garay è chiamato a confrontarsi con sé stesso, con la memoria, con i limiti di ciò che resta quando la vita si sfalda. Il film si muove fra l’ombra e la luce dell’immagine perduta, interrogando la possibilità che il cinema possa non solo raccontare il passato, ma farlo rivivere — non pienamente, ma nella sua assenza, nel suo vuoto che già è presenza.

Recensito da Beatrice 21. September 2025
Ogni film è un tentativo di abbracciare l’irreversibile con le parole dell’immagine.
 — André Bazin
 

Con Cerrar los ojos Víctor Erice compie un ritorno che non è soltanto cinematografico, ma ontologico: un rientro nel territorio della memoria, dell’assenza e del mistero, che prende forma attraverso il cinema stesso come dispositivo di resurrezione. Il film non si accontenta di raccontare la sparizione enigmatica di un attore durante le riprese di un’opera  forse incompiuta; esso trasforma quella mancanza in un varco per interrogare il rapporto tra l’immagine e ciò che resta, tra la vita e la sua ombra.

 
Ricordo è ciò che resta quando il resto è svanito nel buio dello schermo.
— Andrei Tarkovsky
 
L’intreccio — che potrebbe sembrare il pretesto per un’indagine — diventa piuttosto un percorso meditativo: frammenti di film girati e mai conclusi, fotografie che affiorano, interviste televisive che riaprono vecchie ferite. Ogni elemento non conduce tanto a una soluzione quanto a un incontro con la fragilità dell’esistere. L’attore scomparso non è solo un personaggio mancante, è la figura di ciò che il cinema tenta ostinatamente di custodire: la persistenza di un volto, di un gesto, di una voce, anche quando la vita se ne è già andata altrove.

 
Vivere è sperare che qualcuno rimanga a registrare ciò che siamo mentre cambiamo.
 — Federico Fellini
 
In questo senso Cerrar los ojos è un’opera che riflette sul cinema dentro il cinema, sul gesto di filmare come pratica di sopravvivenza, come atto di gratitudine nei confronti di un’arte che, pur sapendo di non poter restituire la vita, si ostina a renderla ancora percepibile. È un film che si offre come archivio sensibile, come atto d’amore verso lo sguardo, come riconoscimento che la finzione può ospitare l’esperienza più autentica.

A incorniciare il racconto vi è l’immagine enigmatica e solenne di una statua di Giano bifronte, che apre e chiude il film. Simbolo di una duplicità irriducibile — il passato e il futuro, la presenza e l’assenza, la memoria e l’oblio — il Giano di Erice diventa figura del cinema stesso, arte che vive guardando simultaneamente verso ciò che è stato e ciò che sarà, trattenendo l’istante nell’eterno movimento tra i due poli. L’opera si configura così come un ponte, una soglia, un doppio sguardo che non si chiude mai del tutto.

La domanda che attraversa sotterraneamente l’opera — e che lo spettatore inevitabilmente fa propria — è se sia possibile continuare a fare cinema sul cinema mentre si vive di cinema, e mentre il cinema, a sua volta, vive dentro di noi. Forse è proprio questo il gesto di Erice: un dialogo intimo e irripetibile con la sua stessa arte, una forma di resistenza al tempo che scorre, un ultimo dono offerto a chi guarda.

Il ritmo contemplativo, i silenzi che lasciano spazio all’invisibile, le immagini che si distendono come ricordi restituiscono a Cerrar los ojos la qualità di un testamento poetico. Non però come chiusura, ma come apertura: la conferma che il cinema, finché esiste, è in grado di custodire le assenze, di trasformarle in presenze e di restituire alla vita la sua più fragile, ma anche più luminosa, realtà.

Il film lascia infine un messaggio che è insieme umile e radicale: la nostra esistenza, pur nella sua assoluta incompletezza e nella sua apparente insensatezza, può trovare un compimento attraverso il linguaggio cinematografico. È nel cinema — nel suo potere di trattenere e insieme di disperdere — che il protagonista resta intrappolato, forse per scelta, come se non potesse esistere al di fuori di quello spazio in cui la vita e l’immagine si confondono.

 Il cinema non è un luogo in cui si racconta la vita: è un luogo in cui la vita continua a raccontarsi dopo di noi.
— Ingmar Bergman
 
 

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