Lo spettacolo è una relazione sociale tra persone mediata da un accumulo di immagini che servono ad alienarci da una vita realmente vissuta.
Guy Debord
In Diamond Brut, titolo originale, più aderente alla storia, Agathe Riedinger consegna un ritratto inquietante ma dolente di una generazione che ha fatto della visibilità il proprio orizzonte morale. La protagonista, Liane (interpretata con intensità da Malou Khebizi), giovanissima – diciannove anni –, incarna quella tensione esistenziale tra il desiderio di riscatto sociale e la disperata necessità di essere vista, di non scomparire nell’ombra della marginalità.
Il film costruisce un’atmosfera quasi ipnotica, dove lo schermo del telefono non è solo un oggetto tecnologico, ma un dispositivo ontologico: in quell’interfaccia digitale Liane cerca non soltanto approvazione, ma conferma della sua esistenza. Questa alienazione non è episodica: la macchina da presa, ci avvolge nelle sue fantasie. In certe sequenze – come quella in discoteca – lo sguardo di Liane si perde in una sorta di trance visiva, quasi ascetica, come se la bellezza altrui fosse una dimensione sacrale in cui lei vorrebbe elevarsi.
Liane investe il suo corpo – e il suo spirito – nella costruzione di un’immagine: ha già fatto ritocchi estetici, modificazioni che segnalano quanto lei consideri la bellezza come valuta di scambio. Non è solo vanità, ma una strategia per uscire dai confini grigi della sua condizione: la bellezza diventa mezzo di emancipazione, ma anche trappola. Come spiega la regista, il suo personaggio personifica una contraddizione: usa la femminilità per elevarsi, ma è una costruzione che ha radici patriarcali e sociali.
La sorellina piccola, tonda, dalle sopracciglia tatuate come fosse un’adulta, balla con una sensualità emulata, precoce e inquietante mentre la madre mette Liane difronte al tema della “libertà: “essere amati è un talento? Che tipo di dittatura è questa?” facendo riferimento ai followers sui social…
L’ambizione della diciannovenne non è innocente e tuttavia conserva una purezza, tutti possono vederla ma nessuno può toccarla. Liane attende la conferma del reality, Miracle Island, credendo che da lì possa arrivare il biglietto per il mondo che conta: una promessa favolosa – quasi salvifica – di riscatto, ma profondamente ambigua.
Il compromesso con i reality non è solo psicologico, ma sociale e sembra che questa partecipazione televisiva possa rappresentare una via di fuga, un atto di sopravvivenza piuttosto che un semplice capriccio e si trasforma presto in una ossessione. La regista usa il suo sguardo cinematografico per denunciare una realtà più ampia, dove la cultura dello show e dello spettacolo sfrutta e in qualche modo sacrifica giovani fragili per costruire narrazioni di celebrità veloce.
In parallelo, il film esplora la deumanizzazione anticipata nei colloqui, implicita nel meccanismo mediatico: Liane non è solo “la concorrente di un reality”, è plasmata, castrata, rimessa in forma da un sistema che chiede conflitto, bellezza, visibilità. Il potere di essere guardata diventa al contempo potere di trasformazione, ma anche una condanna a essere sempre “in scena”.
Quello che rende la descrizione particolarmente potente è la sua tensione sacra: il desiderio della giovane sembra quasi religioso. In alcuni passaggi usa un linguaggio da sermone, come se il suo percorso fosse una missione: “cammino con il Signore … siamo soldati, avremo la nostra vendetta”. I suoi gesti – incollare brillantini su scarpe modeste, ma vertiginosamente alte, prepararsi per l’audizione – assumono un’intensità rituale, una liturgia dell’apparenza che parla di fede, di speranza, ma anche del vuoto che questa “fede” cerca di colmare, insieme ai segni che incide sul suo corpo insieme al dolore e al sacrificio.
E però, la salvezza promessa non si manifesta mai chiaramente: il “paradiso del reality” rimane una voce fuori campo, un miraggio che Liane insegue, ma non afferra definitivamente, è attesa di risposta, a tratti ossessiva.
Questa ambiguità metafisica è al centro dell’espressione esistenziale del film: il sogno di notorietà è insieme elogiato e criticato, desiderato e temuto e questo sicuramente è anche il conflitto di Liane che sosta sempre tra il desiderio e il godimento, tra il “sogno” e la realtà.
Dal punto di vista sociale, nessun giudizio: nessuna condanna per Liane ma riflessione sulle condizioni che rendono la fama un’aspirazione legittima, forse, per chi è cresciuto ai margini. Viene tuttavia messa in luce la violenza sociale insita nel reality: per ottenere visibilità, devi esporre te stessa, generare dramma, fare della tua vulnerabilità un prodotto.
La regista esplora come la cultura mediatica promuova una “mitologia dell’apparire” che non ha nulla di neutro: dietro l’ossessione per i follower, per i like, per l’attenzione, si nasconde un sistema di potere che distribuisce riconoscimento solo a chi accetta di diventare merce. La figura di Liane diventa simbolica: non è solo la storia di una ragazza, ma un manifesto generazionale della precarietà affettiva, dell’invisibilità sociale e del bisogno di riscatto.
La sofisticata colonna sonora composta da Audrey Ismaël privilegia atmosfere elettroniche leggere, quasi sospese, che seguono i movimenti della protagonista più come una pulsazione interna che come un commento emotivo; una sobrietàespressiva che risulta molto efficace: una forma di vibrazione essenziale che accompagna le fratture narrative. Una musica che lavora per sottrazione, raffinata e calibrata, capace di costruire atmosfera senza invadere lo spazio drammaturgico.
Diamond Brut, Diamante grezzo, è un’opera profondamente ambivalente. È allo stesso tempo denuncia e elegia, critica feroce e comprensione empatica. Liane non è dipinta come “negativa”: è una vittima di una logica più grande, ma anche una agente del suo destino, con sogni genuini e una forza fragile, tuttavia combattiva che corre sempre, rabbiosa e arroccata su tacchi altissimi.
Nel cinema contemporaneo, dove spesso i social e i reality sono tematizzati in modo satirico o superficiale, il film di Riedinger emerge per la sua frattura filosofica: il dolore muto, la confusione di stare al mondo mentre il valore di una persona viene calcolato in like, applausi, visibilità.
Il voler essere qualcuno o il voler mostrarsi qualcuno sembrano atti affini, in realtà il primo investe nella propria libertà, mentre il secondo nella prigione che la società gli crea.
Marco Trevisan