Diya

Diya

Achille Ronaimou

Drama • 2025 • 1h 35m

Questo film è stato presentato a Torino Film Fest 2025

Dane, autista a N’Djamena, Ciad, vive serenamente accanto alla moglie in attesa di un figlio, immerso in una quotidianità che sembra protetta da un equilibrio stabile. Tutto si infrange in un istante: una chiamata ricevuta senza pensarci, lo sguardo che devia, un bambino che corre sulla strada per gioco. L’impatto è immediato, irreversibile. Prima in ospedale poi la morte del piccolo apre la richiesta della diya da parte dei parenti, un fardello che supera di gran lunga le possibilità economiche dell’uomo. Nel tentativo disperato di trovare una soluzione, Dane si spinge verso il Nord, attraversando il deserto sterminato, e in quella distesa arida finirà per inciampare nella verità nascosta dietro l’incidente che ha frantumato la sua vita.
Nel contesto ciadiano, la diya rappresenta un’antica forma di compensazione comunitaria: quando una vita viene spezzata, la famiglia dell’autore del danno è chiamata a versare un indennizzo materiale alla famiglia della vittima, non come semplice pagamento, ma come gesto di riparazione collettiva che dovrebbe ricucire lo strappo provocato dalla morte. È un sistema che intreccia consuetudine, responsabilità e memoria, e che ancora oggi regola molti conflitti laddove la giustizia statale non riesce a penetrare.
 
 

Recensito da Beatrice 25. November 2025
L’essenza dell’uomo è contenuta soltanto nella comunità, nell’unità dell’uomo con l’uomo.
Ludwig Feuerbach
 
Nel suo Diya, Achille Ronaimou incide nel tessuto del Ciad contemporaneo come chi tenta di misurare il polso di un corpo che non sa più se è vivo o se sta soltanto imitando la memoria della propria cultura. Il meccanismo antico della diya, l’indennizzo comunitario che dovrebbe ristabilire l’ordine sociale quando una vita viene spezzata è al centro del tema. Il film opera in una regione poco rassicurante, là dove la tradizione si incrina e la comunità espone le proprie fratture come un paesaggio che ha perso le radici. 
 
Il mondo che Diya mette in scena è secco, privo di redenzione, avvelenato da un tempo che ha accelerato senza pietà. Villaggi che a tratti ricordano, aiutano e solidarizzano ma per lo più sembrano dimenticare sé stessi mentre parlano di “tradizione”, autorità locali che indossano la cultura come un mantello cerimoniale dietro cui occultare la gestione arbitraria del potere, famiglie che ricorrono alla diya non più come gesto di pace ma come dispositivo di sopravvivenza economica. Il film osserva tutto questo senza enfasi, con una lente spoglia che sembra scavare nella polvere più che nelle psicologie.
 
Ronaimou costruisce un linguaggio visivo e narrativo che costringe a guardare come la comunità si ripiega su codici parzialmente svuotati, degradati dall’incertezza contemporanea. La diya, anziché riconciliare, genera nuove forme di pressione. Chi dovrebbe essere protetto è spesso costretto a vendere la propria dignità, chi dovrebbe chiedere giustizia finisce per contrattare la propria ferita. E nel mezzo, la gioventù: sospesa, disorientata, erede di un ordine che non riconosce più, religione compresa, e di un futuro che sembra avere la consistenza di un miraggio.
 
Il film avanza come una cronaca dell’inevitabile, e proprio per questo il finale spiazza. Ronaimou evade dalla traiettoria morale che sembrava aver tracciato e sceglie una conclusione sorprendente, imprevedibile, che rimette in gioco tutto ciò che credevamo scontato. Non per stupire, ma per ribadire che la realtà ciadiana — come molte realtà oggi — si è trasformata al punto da rendere irriconoscibili persino le sue radici. Quelle radici che, invece di nutrire la comunità, sono state consegnate all’erosione lenta della corruzione, del bisogno, della contemporaneità che tutto ingloba, tutto consuma.
 
Ronaimoudel non racconta il Ciad come uno sfondo esotico: lo restituisce come una tensione. La diya, che un tempo funzionava come rituale di ricomposizione — un gesto collettivo per trasformare il dolore in responsabilità — diventa nel film una struttura svuotata, manipolata, corrosa dagli interessi di chi ha imparato a trattare anche il lutto come un terreno di scambio. La cultura della riparazione si trasfigura in un’economia morale negoziabile, dove il valore di una vita oscilla con la stessa instabilità dei mercati che hanno lentamente infiltrato ogni relazione.
 
Diya si rivela un atto di osservazione implacabile, un promemoria di ciò che resta quando una cultura sopravvive solo come eco, e quando la giustizia diventa merce tra le mani di un tempo che non ha più rituali, ma soltanto transazioni.
 
Quando il capo baratta la verità, anche il bambino impara il prezzo della menzogna.
( Proverbio Ciadiano) 
 
 
 

Questo film era in concorso ufficiale di Torino Film Fest 2025

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