Viviamo in un mondo dove l'informazione è sempre in eccesso e il significato sempre in difetto.
(Jean Baudrillard)
Radu Jude non firma semplicemente un film su Dracula: compone un monumentale satirico-epistemologico, un’ode dissacrante all’arte, alla tecnologia e al mito nazionale che si rigenera come un vampiro in putrefazione di idee. Le sue 170 minuti, lunghezza che di per sé sembra una provocazione, sono più di un test: sono uno specchio deformante in cui lo spettatore deve riconoscersi, o almeno interrogarsi.
Il regista trasforma il conte vampiro in un simbolo politico: non più solo il predatore gotico, ma figura del potere che si nutre di lavoro, nostalgia, mitologia e sfruttamento. In uno dei segmenti, Dracula guida uno sciopero di zombie — una metafora brutale ma efficace sulla solidarietà di classe, oppure, se volete, sulla sua caricatura più grottesca. Jude diluisce il terrore nei meccanismi sociali: il vampiro non è solo una creatura della notte, ma l’altro volto delle diseguaglianze che divorano la vita quotidiana.
Che il film sia girato con un iPhone non è un vezzo hipster ma una dichiarazione d’intenti: Jude se ne infischia della “purezza” hollywoodiana. E poi c’è l’IA, o la sua immaginata controfigura: la finta intelligenza artificiale è al tempo stesso deus ex machina e demone. Invece di benignità, genera aberrazioni: storie assurde, immagini sessuali spropositate, feticismi kitsch. È un commento tagliente sulla cultura generativa, sull’industria del contenuto e sulla “sporcizia” estetica che minaccia di naturalizzarsi.
Jude non idealizza l’IA, la utilizza per esporla. La macchina non è né salutare né elevata, ma “grossa e viscida”: un oggetto che riflette la mediocrità capitalistico-digitale. La sua contraddizione è l’asset drammatico del film — come se Jude mettesse in scena una seduzione ambigua con la tecnologia, piena di disgusto e desiderio allo stesso tempo.
Nel groviglio delle vignette, emergono momenti di un’esistenza che è vampirica non tanto per il sangue quanto per la memoria e il desiderio. Il mito di Dracula diventa lente esistenziale per esplorare la nostalgia nazionale, l’identità storica, la relazione tra passato e presente. Ci sono scene che oscillano tra la parodia teatrale, il cabaret politico e l’ensemble di orrore kitsch: un caleidoscopio che destabilizza lo spettatore, che non sa più cosa è mitologia e cosa è realpolitik.
Jude scaglia dardi verso il consumismo culturale: il vampiro turistico in Sighișoara sembra venduto come attrazione da galleria commerciale; il pubblico assiste come cattivo cliente. Allo stesso tempo, il regista critica anche il lavoro intellettuale: il regista nel film — e metaforicamente Jude stesso — è strutturalmente dipendente da un sistema che lo sfrutta, e l’IA diventa uno strumento ambivalente: aiuta ma banalizza, spinge ma snatura.
È impossibile non restare affascinati e irritati: il film gioca deliberatamente su battute sessuali volgari, gag splatter, simbolismi provocatori. Per alcuni critici è un’operazione infantile, “dal cinismo giovanile”; per altri, è un esperimento geniale che sfida la fruizione cinematografica moderna.
Il risultato è un’opera che non è pensata per essere “bella”, ma per essere sentita come un pugno nello stomaco — o un morso sul collo. La volgarità diventa strumento di resistenza: romanticismo, storicità, kitsch, politica, sesso e tecnologia si sovrappongono in una danza di disillusione.
Dracula di Radu Jude è molto più di una rilettura del mito del vampiro: è un trattato satirico, un pamphlet politico, una riflessione filosofica e un esperimento audiovisivo. È il ritratto di un mondo che risucchia la sua stessa mitologia per venderla, di un’arte che si ritrova dipendente dalla macchina, e di un regista che, in modo ostinato, decide di sedurci con la sua intelligenza – anche se marcia.
Se sei pronto a sopportare il caos, la volgarità e l’eccesso, il film offre una provocazione potente: non solo su chi siamo, ma su cosa diventiamo quando il mito è manipolato da algoritmi. E forse, proprio come un vampiro, la cultura moderna non muore mai — ma ossessiona, risucchia e trasforma.
Sotto il monopolio, tutta la cultura di massa è identica, e il suo scheletro morale è forgiato dall’industria culturale.
(T.W. Adorno)