Eddington

Eddington

Ari Aster

Drama • 2025 • 2h 25m

Questo film è stato presentato a Cannes Film Festival

Ambientato nel 2020, durante il caos della pandemia, Eddington racconta la discesa morale e politica di una piccola cittadina del Nuovo Messico. Lo sceriffo Joe Cross, diviso tra senso del dovere e ambizione personale, entra in rotta di collisione con il sindaco Ted Garcia, simbolo di un potere che si disgrega sotto il peso della paura collettiva. Intorno a loro, la moglie di Joe, Louise e la suocera Dawn incarnano due forme di trauma e follia domestica mentre le fake news e la rabbia sociale invadono la cittadina. 

 

Recensito da Beatrice 15. October 2025
Una menzogna può fare il giro del mondo mentre la verità sta ancora allacciandosi le scarpe.
Mark Twain

C’è una cittadina, nel cuore del nulla americano, che si chiama Eddington, dove in strada non c’è nessuno perché stanno tutti sui social.
Non è un luogo, è una condizione. Una bolla di realtà sospesa tra pandemia e paranoia, dove tutti hanno un’opinione, un credo, una teoria, un complotto a cui aggrapparsi. E, come in ogni buona parabola contemporanea, nessuno ha torto — ma neppure nessuno ha ragione.

Nel film di Ari Aster, due figure si fronteggiano come in un western morale travestito da satira politica: Joe Cross, lo sceriffo interpretato da Joaquin Phoenix, e Ted Garcia, il sindaco pragmatico con il volto di Pedro Pascal. Attorno a loro, un microcosmo di cittadini che sembrano usciti da una seduta di gruppo tra Levinas e TikTok: Louise (Emma Stone), moglie di Joe, divisa tra la ricerca di una fede e la fascinazione per le teorie complottiste della madre, Dawn che trasforma ogni cena in un talk show sull’Apocalisse; poi ci sono i giovani, con i loro smartphone, le loro cause sacrosante e la loro convinzione di essere già leggenda in 4K.

In questo universo saturo di opinioni, Eddington diventa il laboratorio politico propagandistico di un’epoca in cui il potere non governa più: semplicemente si replica, si diffonde, si riproduce come un virus. È un film sul nichilismo del potere, sull’ontologia dell’annullamento della decisione — quella forma di impotenza mascherata da libertà che chiamiamo “partecipazione”.
 Tutti credono di avere una risposta, una verità, una soluzione. Tutti combattono per qualcosa. Ma ogni lotta, in fondo, è strumentalizzata: la setta religiosa e l’attivista, il predicatore e l’influencer, il Black Lives Matter e la violenza della polizia diventano tasselli dello stesso mosaico di simulacri. Nessuno crede più davvero in nulla, eppure tutti credono, almeno pensano di credere, con furore.

Aster orchestra questo delirio con un’ironia chirurgica: ogni discussione è un duello morale, ogni post una condanna, ogni sorriso un segno di disperazione. Dalla pedofilia alla militanza, dalla fede alla fake news, Eddington sfiora tutto ciò che brucia — e lo fa con la leggerezza di un film che sa che la tragedia è ormai routine, e che il vero orrore è diventato spettacolo.

La violenza dei sentimenti è il male, suggerisce il film: non quella fisica, ma quella emozionale, quella che pretende autenticità a ogni costo. È la violenza della confessione pubblica, dell’autonarrazione compulsiva, dell’identità come prestazione. In questa psico-patologia collettiva, nessuno conta davvero, e tuttavia tutti si sentono protagonisti. Il valore non si misura più in azioni, ma in algoritmi. Esisti se sei visto, vali se sei ripreso: e così, tutti riprendono tutti, in un loop infinito di cattura, denuncia e auto-assoluzione.

Le bambole mostruose cucite dai traumi della moglie dello sceriffo sono icone disturbanti, un simbolo contemporaneo — rappresentano la deformazione umana meglio di qualunque saggio filosofico. Sono le nostre protesi affettive, la nostra ricerca di senso riciclata. Aster le filma con gusto grottesco, come se fossero i testimoni più sinceri di un mondo che non crede più alla differenza tra orrore e umano.

La regia mescola il western e l’horror, il thriller politico e la commedia nera: uno stile che sa essere sontuoso e miserabile insieme. Il deserto attorno a Eddington è il vero protagonista: un paesaggio mentale in cui ogni certezza evapora, ogni idea si ripete, ogni gesto viene catturato da una telecamera invisibile. Lì, nel mezzo del nulla, lo sceriffo è il tentativo di placare gli animi, il sofà è il saloon, e la pistola è solo un oggetto scenico per chi ha già sparato tutte le proprie verità.

Il film è perfetto nel suo disequilibrio, magnifico nella sua provocazione. Solo il finale — quei quindici minuti di troppo, tuttavia sarcastici sul suprematismo bianco — tradisce un piccolo cedimento alla tentazione del compiacimento, come se Aster, dopo aver svelato il vuoto, volesse anche spiegarlo. Ma il vuoto non si spiega.

Perché Eddington, sotto la sua veste di tragedia americana, è anche un film profondamente comico. Non nel senso della leggerezza, ma nel senso più antico della parola: il comico come rivelazione dell’assurdo, come disinnesco del dolore attraverso la ripetizione, come sberleffo all’idea stessa di coerenza. Ciò che ci distrugge, qui, ci diverte; e viceversa.

In definitiva, Eddington è una visione spietata e irresistibile del presente e dei suoi algoritmi: un’apocalisse in diretta, orchestrata con precisione morale e sarcasmo metafisico. È il ritratto di un mondo che parla di pace ma comunica solo attraverso la violenza, che cerca senso ma trova solo performance, che sopravvive per inerzia, fino allo sfinimento in atto.
Un film disperato e, in un modo perverso, anche divertente — perché non c’è nulla di più esilarante del guardare un’umanità che affoga nel proprio bisogno di sentirsi reale.

La maggior parte delle persone è qualcun altro. I loro pensieri sono opinioni di altri, le loro vite una mimesi, le loro passioni una citazione.
Oscar Wilde
 
 

Questo film era in concorso ufficiale di Cannes Film Festival

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