«Il male è più profondo di quanto la giustizia possa scandagliare.»
— Hannah Arendt
Difficile decifrare un delitto, né restituire un gesto criminale a una logica chiara. La storia procede come se il reato fosse un enigma che si autoalimenta, una macchia che non si lascia tradurre in cause e conseguenze. È proprio qui che la criminologia trova il suo terreno più fecondo: non tanto nella ricostruzione dei fatti, quanto nella ricerca del punto oscuro in cui il male prende forma, in quell’istante indecifrabile in cui l’innocenza si spezza e la colpa comincia il suo percorso.
La menzogna diventa allora un meccanismo centrale, non un dettaglio accessorio. Funziona come un linguaggio parallelo, un codice che al tempo stesso dissimula e protegge. La criminologia lo sa: dietro ogni menzogna si cela la promessa di un rimedio, un tentativo di riequilibrare l’irreparabile, anche quando la frattura è un omicidio. Elisa si muove proprio dentro questo paradosso, come chi accetta di abitare una trappola che non ha costruito, ma che finisce per custodire. In questo senso, la sua condizione richiama l’assoggettamento che nasce non dalla costrizione esterna, ma dal bisogno interiore di trovare un senso, anche dove il senso è impossibile da decifrare.
Questa dimensione emerge anche nell’analisi del contesto familiare, che non si limita a essere sfondo ma diventa parte del reato stesso. Una madre che non l’ha mai voluta, che lo ripete con ostinazione fino a trasformare il rifiuto in condanna esistenziale; un padre che, al contrario, continua a crederle, a difenderla, a presentarsi due volte a settimana come testimone silenzioso di una fiducia irriducibile. Questa spaccatura non cancella la colpa, ma la amplifica, la rende più ambigua, costringendo a domandarsi se il male nasca dal gesto criminale o dall’ambiente che lo prepara, lo tollera, lo perpetua.
Il film si muove così tra il terreno del thriller e quello della riflessione etica, ma con lo sguardo costante di quella scienza che interroga non soltanto “chi ha fatto cosa”, ma soprattutto “dove si annida il male, e perché continua a sfuggire a ogni decifrazione”. Costanzo costruisce un ambiente in cui i personaggi si aggirano come colpevoli e vittime allo stesso tempo, intrappolati in una rete di obblighi e di inganni che li annienta. Lo spettatore non assiste a una semplice ricostruzione lineare di un crimine, ma a un progressivo disfarsi delle verità disponibili, fino al punto in cui la giustizia stessa appare come un artificio, un’altra menzogna necessaria.
Elisa è dunque un film che si colloca nello spazio più oscuro, non quello della certezza processuale, ma quello dell’indecidibile, dell’irriducibile che non può essere spiegata ma soltanto abitata. Perché li, nella presa d’atto, nella consapevolezza, nella interpretazione, nella definizione dei confini, cause, motivi presunti o reali che siano, che si entra in una gabbia non per costrizione, ma per il bisogno di credere che sia l’unico luogo abitabile.
Ogni reato porta con sé un eccesso che sfugge al giudizio, un residuo che nessuna sentenza può colmare.»
— Michel Foucault