Eva

Eva

Emanuela Rossi

Drama • 2025 • 1h 41m

Questo film è stato presentato a Torino Film Festival 2025

Eva è una figura sfuggente e divorata da un dolore che sembra aver generato una ossessione radicale: vaga nei boschi, compie complesse peregrinazioni attraverso centri commerciali e zone turistiche dell’Umbria con una “missione” tragica — rapire bambini. 
In un incontro casuale con Giacomo, un vedovo trasferitosi con il figlio Nicola in un casale immerso nella natura, la donna scorge — per la prima volta — la possibilità di una vita diversa: quella di madre, quella di protezione, quella della condivisione. 
Ma qualcosa di oscuro, repressivo, interno an Eva — un dolore primordiale e inscindibile — la spinge a riprendere la sua missione. 
 

Recensito da Beatrice 26. November 2025
Il male non è mai radicale, è soltanto estremo.
 — Hannah Arendt
 
Il paesaggio diventa metafora: rifugio per l’anima, grembo primordiale, spazio dell’esilio e della possibile redenzione. 
 
E tuttavia, questa potente simbologia della natura — che potrebbe evocare rinascita, rigenerazione o un ritorno a un’origine autentica — si risolve paradossalmente in un contesto di alienazione e distruzione: la “missione” di Eva non decade, la sua sofferenza non trova catarsi. L’idea di natura come “utero salvifico” fallisce.
 
Nel film, la natura è spettatrice neutrale — non pietosa, non redentrice. E questa neutralità è un elemento tanto disturbante quanto coerente: restituisce la sensazione che non esista alcuna salvezza automatica, nessuna reintegrazione innocente, solo un eterno vagare. 
 
Il paesaggio, insomma, resta un’estetica del dolore, non un sostegno metafisico — e questo è in parte il limite del film: la tensione tra solitudine, natura e possibilità di salvezza resta per lo più un’architettura simbolica fragile, incapace di rendere credibile una rinascita. 
 
Il personaggio di Eva, con la sua ambivalenza — vittima e carnefice, madre potenziale e rapitrice — promette di essere un campo fertile per una riflessione sull’abisso dell’anima, sul trauma, sulla maternità spezzata, sulla trasgressione radicale delle regole sociali.
 
Il film sembra non riuscire a dar conto pieno di questa ambiguità in maniera sufficientemente approfondita. La “missione” di Eva appare come un fatto dato, quasi meccanico, privo di un’esplorazione psicologica che la renda almeno parzialmente identificabile. 
Il film tende verso una drammatizzazione radicale del male, senza la costruzione di una architettura adeguata a sostenere la sceneggiatura. 
Il tentativo di creare una figura tragica — una “madre selvatica”, una donna errante, un’anima in frantumi — rimane in gran parte incompleta. 
 
Secondo la regista, il film ambisce a “mescolare vari generi: dramma familiare, thriller, persino sci-fi”, per rappresentare la complessità del nostro tempo. 
Tale ibridazione — in sé legittima e potenzialmente feconda — può però rischiare di disperdere il focus. In Eva, questa commistione genera contrasti che, piuttosto che arricchire, finiscono per indebolire la coesione narrativa: la missione drammatica di Eva non trova piena armonia né con il registro del thriller, né con quello psicologico-esistenziale, né con l’idea di rinascita intimista.
Il potenziale simbolico del film resta dunque in qualche misura dalla molteplicità di registri, che impedisce un’immersione profonda in nessuno di essi.
 
In termini formali ed estetici, l’equilibrio fra realismo, suggestione atmosferica e tensione simbolica sono piuttosto precari, nonostante il finale sia rivelativo di molte domande insolute. 
Così, la scelta di “rapire bambini” — gesto mostruoso, eticamente inaccettabile viene solo in ultimo spiegato da quell’abisso psichico che ha determinato la sua azione e la deriva che ne consegue. 
 
Eva, nella sua ambizione, si propone come indagine sull’abisso dell’anima, sulla ferita dell’abbandono, sul desiderio di salvezza. Ma — almeno nella parte che si può valutare prima del finale — l’operazione sembra fermarsi a una drammatizzazione simbolica, a un’immagine provocatoria e disturbante di un dolore individuale trasformato in gesto estremo. Il personaggio rimane in larga misura un enigma senza corpo, una metafora fatua. 
 
Questa distanza critica — in qualche modo coerente con questo genere di  sensibilità, che privilegia la struttura, la forma, la resa simbolica — rende il film interessante come gesto di rottura ma pur sempre una proposta estetica fine a sé stessa. 
 
La perdita è una forma di appartenenza.
 — Joan Didion
 
 

Questo film era in concorso ufficiale di Torino Film Festival 2025

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