Siamo la nostra memoria, siamo questo museo chimerico di forme incostanti, questo mucchio di specchi rotti.
Jorge Luis Borges
In questa scena iniziale Familiar Touch rivela subito il proprio nucleo: la mente che vacilla, la percezione che si incrina, il confine tra presente e ricordo che diventa poroso.
Da quel momento il film di Sarah Friedland accompagna Ruth — interpretata con discrezione intensa da Kathleen Chalfant — in un passaggio inevitabile: dall’abitazione domestica alla casa di riposo. La regista non costruisce un dramma, non amplifica il dolore; preferisce un linguaggio essenziale, fatto di gesti ripetuti e di silenzi, dove ogni minima azione si carica di senso. Preparare un vestito, sedersi a tavola, rivolgere uno sguardo a chi non si riconosce più: tutto diventa testimonianza dell’identità che si sfalda e allo stesso tempo resiste.
Eppure non tutto è gravità. In una delle scene più sorprendenti e ironiche, Ruth entra nella cucina della struttura convinta di essere la chef: prende possesso dello spazio, impartisce regole con sicurezza, organizza i presenti come se fossero la sua brigata. È un momento di leggerezza e vitalità, in cui la perdita di orientamento diventa invenzione, e la fragilità si rovescia in gioco teatrale. La memoria che inganna restituisce paradossalmente energia, lasciando intravedere una libertà inattesa.
La struttura che accoglie Ruth non è solo luogo di declino, ma spazio ambivalente. È recinto e apertura, perdita e possibilità. Lì si intrecciano relazioni nuove, presenze concrete di altri residenti che non fungono da contorno ma da veri compagni di scena, conferendo autenticità al racconto. Non c’è pietismo, non c’è enfasi emotiva: il film osserva con rigore ciò che resta quando la memoria cede.
Familiar Touch è un tocco di classe, un frammento visivo prezioso e intenso che mostra un’esistenza che si mantiene per inerzia e desiderio attraverso la dignità che affiora nel gesto minimo. È un cinema che indaga il limite dell’identità, chiedendo cosa definisce ancora un individuo quando il ricordo si dissolve. Non la continuità, ma la persistenza fragile di un corpo che abita il tempo, e di un volto che ancora chiede di essere visto.
Non ricordare più non significa smettere di vivere: significa vivere altrove.
Marguerite Duras