La fede comincia esattamente dove il pensiero finisce.
( S. Kierkegaard)
Solo la materia può incontrare l’immaterialità.
Il gesto diventa riflessione geologica, e la materia stessa si fa domanda. God — tre lettere che coincidono con Dio nella lingua italiana — si scompone, si frantuma, si cela. Non come infrazione o preghiera, ma come esperimento ontologico: che cosa resta di Dio quando la parola è spezzata, quando la pietra si fa custode del silenzio?
Arena non cerca Dio in cielo, ma nella stratificazione del tempo. La sua “scritta” incisa su due lastre — la G e la D separate, lo spazio vuoto dove dovrebbe stare la O — è un gesto tanto semplice quanto vertiginoso: l’assenza come forma di presenza, la fede come ipotesi che richiede la coesistenza del dubbio. Quando le due pietre vengono accostate, la lettera mancante si compone solo nell’immaginazione, come un dio che si rivela nel momento stesso in cui si nega. La parola God resta sepolta, invisibile, come se la divinità avesse bisogno del sotterramento per esistere davvero — come se la verità si manifestasse solo nel suo occultamento.
In questa ricerca, la pietra non è più simbolo di eternità ma di un tempo che ci precede e ci sopravvive. L’uomo, fragile contenitore, si misura con l’incommensurabile continuità del minerale: noi, esseri di passaggio, che pretendiamo di contenere Dio, siamo invece contenuti dal mondo stesso, inglobati nella sua geologia millenaria. Le mura ciclopiche — antiche come la memoria della specie — diventano metafora del pensiero che tenta invano di delimitare l’assoluto.
Searching Pra-Chao è allora un film sul limite della conoscenza e sullo scandalo della fede. Kierkegaard aleggia in ogni fotogramma: la scommessa sul divino come salto nel vuoto, il paradosso come unica forma di contatto col sacro. Dio, in Arena, non è un concetto ma una possibilità, una fenditura tra due pietre che combaciano solo per un istante eterno. È l’attimo in cui la materia si apre all’enigma, e il linguaggio si dissolve nella sua stessa impossibilità di nominare.
Ciò che resta è il gesto, una scrittura che si affida alla terra, un atto di fiducia rivolto all’invisibile. Forse la fede non è altro che questo: scavare, incidere, coprire — lasciare che il tempo faccia il resto.
Alla fine, la fede cieca è il solo tipo di fede.
(Mason Cooley)