Gli occhi degli altri

Gli Occhi Degli Altri

Andrea De Sica

Drama • 2025 • 1h 30m

Questo film è stato presentato a Roma film fest

Ispirato al celebre del ­Delitto Casati Stampa, ambientato negli anni ’60.

Recensito da Beatrice 18. October 2025
In apertura, la consueta didascalia di salvaguardia : “ogni riferimento a fatti e persone è puramente casuale”. Un atto di autoassoluzione preventiva, una precauzione necessaria. 
 
Tuttavia ispirato al celebre delitto ­Casati Stampa e ambientato negli anni ’60, il film sembra tradire sé stesso, consegnandoci un dramma che si concentra sul desiderio, il potere, lo sguardo, il tradimento –, ma che finisce per scivolare in una commedia involontaria, fatta di sequenze interminabili, 39 minuti iniziali di sesso e penombra e contesti talmente implausibili da suscitare ilarità anziché coinvolgimento. 
 
Il titolo stesso, Gli occhi degli altri, lascia promesse altissime: lo sguardo come strumento di potere, l’Altro che osserva e viene osservato, la trasgressione che diventa ossessione. Nella sinossi ufficiale si parla di sesso e potere in un’isola posseduta da un marchese… una cornice potenzialmente «gotica» per un dramma sentimentale.
 
Ma è come se nel palazzo del marchese si fosse aperta una deriva: tutto straripa, si confonde, si contamina. I confini tra desiderio e pantomima si sciolgono in un languore da fine impero, dove il conte – tra un bicchiere di champagne e una ripresa video, pare più interessato al suo voyeurismo che alla relazione. Un’eco tardo-borghese dei bungabunga d’altri tempi, travestito da tormentone. 
 
L’impressione è che il film apra come un videoclip da festival del desiderio, più che come un’indagine drammatica. Il sesso, che potrebbe esser strumento di tensione o rottura, qui diventa puro esercizio di stile e posa, privo di gravità. In un buon dramma, la transazione sessuale porta con sé conseguenze, orrori, rimorsi. Qui invece pare che il reale dramma stia aspettando dietro l’angolo, ma intanto noi restiamo a osservare performance visive e siparietti erotici che avrebbero avuto miglior collocazione in un film diverso. Il risultato? Il pubblico finisce per ridere senza coinvolgimento alcuno.
 
Il film pretende di scavare nel desiderio, nella gelosia, nella distruzione, ma lo fa da un palco finto. In mezzo a questa teatralità artificiale, compare una lettera, la liquidazione della contessa e il divorzio formale dal conte, ormai annegato nel suo naufragio identitario. Una scena che vorrebbe essere tragica, ma risulta tragicomica. La visione alterna imbarazzo, smarrimento e noia. 
La contessa, dopo qualche anno dal matrimonio veneziano, era scivolata in una depressione elegante, una malinconia da boudoir; poi, per riprendersi, si era affidata a un giovane belloccio povero, con una casa grande quanto la loro camera da letto.
 
L’epilogo, che vede lei iberata e il conte dissolto nel suo esilio sentimentale, pare voler sigillare la fine di un’epoca: non la tragedia del desiderio, ma la parodia della sua memoria. I salotti  che odorano di ipocrisia, i gesti manierati, i letti dorati dove nulla accade se non la messa in scena della decadenza.
 
Forse il vero dramma non è il delitto, né l’amore, né la follia dei protagonisti, ma la condizione di un certo cinema italiano che crede ancora di poter sublimare il nulla attraverso la penombra. Si confonde l’indolenza con la profondità, l’estetica con la metafisica, il sesso con l’erotismo. Ogni inquadratura pare chiedere scusa per esistere, ogni fatuo dialogo teme di essere preso sul serio. È il nuovo aristocratico vizio: la povertà d’idee mascherata da ambiguità poetica, la stessa che spinge i registi a credere che il silenzio equivalga alla verità. In realtà è solo il suono del vuoto, perfettamente fotografato.
 

Questo film era in concorso ufficiale di Roma film fest

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