Diventerò grande e maturo quando avrò le prove che da adulti si sta meglio.
Fabrizio Caramagna
La progressione narrativa porta il protagonista ad attraversare uno spazio claustrofobico, non soltanto fisico ma psicologico: l’isolamento, la coercizione, l’umiliazione e la tensione tra spinta alla libertà e forza del controllo si intrecciano costantemente.
Good Boy è un film che sfuma i confini del genere: thriller psicologico, dramma sociale, esperimento allegorico. Alla sua maniera, l’opera evoca vagamente suggestioni kubrickiane — sia per la freddezza geometrica degli spazi che per la crudeltà che deriva dall’ordine — ma contemporaneamente mantiene una dimensione quasi da fiaba nera, dove il “luogo oscuro” diventa metafora del vuoto esistenziale.
La costruzione visiva e la regia di Komasa lavorano sull’opposizione fra interno ed esterno, luce e ombra, restrizione e respiro: lo spazio domestico si trasforma in prigione spirituale. Le immagini non sempre mostrano l’orrore direttamente, ma lo suggeriscono con sguardi, rumori, silenzi.
Uno dei meriti del film è la dualità che lascia in sospeso le motivazioni e i ruoli: non è semplice stabilire chi sia il “cattivo” e chi il “salvatore”. Chris crede di agire per il bene, di correggere una dissolutezza giovanile, ma il suo metodo è perverso — e il confine tra salvezza e violenza diventa labile.
Tommy non è dipinto come un “mostro”, ma come un ragazzo disorientato, plasmato da assenze, desideri e ferite non sanate. Il film suggerisce che il comportamento estremo — droga, ribellione, violenza — nasca non da un vizio morale, ma da una solitudine radicale.
E questo riguarda anche Nina la governante che ha problemi con la sua famiglia d’origine.
La prigionia del ragazzo diventa simbolo estremo di ciò che sperimentano molti adolescenti: sentirsi intrappolati dentro una vita che non ha direzione, senza guide autentiche. E del vuoto che può spingere verso gesti inconsulti. In questo senso, Good Boy non condanna semplicemente i comportamenti, ma ne esplora la genesi interiore.
Solo nel finale si dipana l’effettiva visione e l’esito diventa addirittura sorprendente. Pur non essendo un film “formativo” nel senso tradizionale, Good Boy possiede un profilo educativo. Offre l’occasione di interrogarci sul pericolo della assenza di ascolto, sull’errore di ridurre la genitorialità alla mera generazione e a lasciar che i propri figli crescano senza regole e orientamenti etici e dall’altro alla esasperazione del controllo e della disciplina, trascurando l’importanza del dialogo, della osservazione attenta e della relazione. Il film mostra che la disperazione, la fuga, il ricorso alla droga non sono semplici “scelte sbagliate”, ma spesso reazioni disperate di chi non si sente visto, non si sente amato tantomeno riconosciuto.
In definitiva, Good Boy si rivela non solo un film di denuncia o di inquietudine, ma un dispositivo di osservazione — una lente che penetra le zone cieche dell’adolescenza contemporanea e le mette a confronto con le omissioni del mondo adulto.
In questa prospettiva, l’opera assume un valore pedagogico paradossale: non perché offra risposte, ma perché obbliga a guardare le domande che la società tende a ignorare. È un film che dovrebbe entrare nelle scuole, non come lezione di morale, ma come esercizio di consapevolezza. Mostrando la vulnerabilità come condizione condivisa, Good Boy squarcia l’ipocrisia che spesso aleggia nei discorsi sull’educazione — quella che separa artificialmente scuola, famiglia e Stato, come se non fossero parte di uno stesso corpo collettivo.
Alle volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane.
Italo Calvino