Him

Him

Justin Tipping

Horror • 2025 • 1h 36m

Questo film è stato presentato a Asian Film Festival a Roma

Il protagonista, Cameron “Cam” Cade, è un giovane quarterback il cui essere è interamente modellato dall’ideale del successo nel football. Cam vive un trauma — un’aggressione che gli causa una lesione cerebrale — che pare porre fine al suo sogno professionale. La salvezza sembra presentarsi sotto forma di Isaiah White, leggenda vivente del gioco, che lo invita a un intenso percorso di allenamento in un luogo isolato e ostile, condiviso con la moglie influencer Elsie. Tuttavia, quanto più l’addestramento si spinge verso limiti estremi, tanto più la figura del mentore si trasforma: da guida ispiratrice a profeta oscuro, da esaltatore della disciplina a burattinaio esigente.

Recensito da Beatrice 01. October 2025
Guardati da tutti gli uomini che hanno la mania del perseguimento di uno scopo! Quello scopo, facilmente, potrebbe essere il loro solo interesse per te.
Friedrich Nietzsche

Him si presenta come un esperimento ibrido: horror psicologico, simbologia mistica, sport come arena della volontà, e un racconto di ambizione che rischia di farsi ossessione. Il film pone da subito una domanda morale pretestuosa: qual è il prezzo della grandezza quando l’identità stessa diventa moneta di scambio?
Cam incarna il sogno dell’auto-realizzazione tramite la disciplina: ogni fibra del suo io è rivolta verso il risultato, verso il riconoscimento. Ma l’allenamento con Isaiah rivela gradualmente che il sacrificio chiesto non è soltanto fisico: è un’offerta dell’identità stessa. Il film interroga se si possa acquistare la grandezza rinunciando a parti di sé — passioni, relazioni, salute mentale — e se questo atto di offerta non equivalga a una forma di auto-alienazione.
La vicenda di Cade può essere letta come un’eco contemporanea del cinema epico: non a caso il suo percorso richiama la parabola di Massimo ne Il Gladiatore. Anche qui c’è un uomo gettato nell’arena, costretto a combattere non solo contro avversari visibili, ma contro un destino che lo trasforma in spettacolo per il pubblico. Se nell’antica Roma i gladiatori erano schiavi della violenza imperiale, oggi i campioni del football — pur ricchi e famosi — non sono meno prigionieri: schiavi del contratto, della performance, del consenso effimero. Le luci degli stadi sostituiscono il Colosseo, ma la dinamica resta la stessa: corpi offerti come sacrificio per saziare il bisogno collettivo di violenza e gloria.
Isaiah appare come una figura messianica che esercita potere su Cam non tanto grazie a ciò che fa, quanto grazie al mito che incarna. Lo spazio isolato diventa luogo di manipolazione spirituale e mentale: ciò che in principio pare mentorato diventa fondo oscuro, in cui non è chiaro chi guidi chi. C’è un’eco del paradigma del culto, di religioni laiche dello sport, dove il sacrificio è esaltato e l’individuo deve aderire a rituali che vanno oltre la ragione.
Il film gioca spesso con il confine tra aspirazione e autodistruzione. Ambire ( CHI NON OSA NON VINCE, come diceva il padre di Cam) significa spingere i propri limiti, ma Him lascia intuire che superare il limite può trasformarsi in caduta: quando la visione del successo lacera la psiche, quando l’estasi del riconoscimento sfuma nella vertigine della perdita di sé. Ci sono elementi sovrannaturali che amplificano questo stato, visioni interiori e simboli che destabilizzano la distinzione tra realtà e delirio. 
In filigrana affiora il tema del doping, mai affrontato frontalmente ma costantemente evocato: trasfusioni, pillole, pozioni, integratori, diventano sacramenti di una nuova religione del corpo. L’allenamento con Isaiah sembra un percorso iniziatico che non differisce, nella sua logica, da rituali dopanti che trasformano l’atleta in macchina. Qui il sacrificio non è solo simbolico: è biochimico, è l’alterazione profonda della carne per alimentare il mito.
La folla, con le sue esaltazioni e i suoi giudizi feroci, viene ritratta come un organismo acefalo: i fan e gli haters appaiono come zombie, masse indistinte che consumano e giudicano senza mai davvero comprendere. Cade e Isaiah vivono sotto lo sguardo di questi non-morti sociali, prigionieri di like e insulti, nutrendosi e al contempo consumandosi nello stesso spettacolo cannibale.
Nella retorica sportiva americana lo slogan “God, family, football” rappresenta una triade sacra di valori. In Him, Isaiah la rovescia: Football, family, God. La patria non compare più, e la trascendenza religiosa scivola in fondo alla lista, quasi relegata a un residuo folclorico. Il centro assoluto è il football, elevato a divinità unica e insaziabile. La casa di Isaiah, esteticamente sublime, con istallazioni di arte al posto della mobilia, sontuosa e inquietante, somiglia a un museo di arte contemporanea: un mausoleo dove gli oggetti diventano strumento di potere e auto-celebrazione, segno che la sua religione non ammette altro culto che quello dell’ego.
Malgrado qualche estetismo di troppo che tuttavia appaga gli occhi, Him costringe a chiedersi quanta parte della propria vita si sia spesa (o si sia disposti a spendere) per ciò che agli altri appare grandezza. Quanto l’umano è disposto a perdere — di innocenza, di equilibrio, di pseudo/libertà — in nome del successo? Cam diventa lente attraverso cui osservare il paradosso: il desiderio di emergere può essere tanto vitale quanto distruttivo.
Him è un’opera che aspira ad essere critica, cupa, evocativa, e a tratti lo è davvero. È un film che osa mescolare sport, horror, simbolismo spirituale, ma che paga lo scotto di un’esecuzione riuscendo tuttavia a mantenere l’altezza delle sue ambizioni. Una meditazione sul sistema, anche sportivo, sulla devozione come possibile trappola, e sul senso della possibilità che può essere sacrificata sull’altare della gloria.
Un film che indossa una maschera, quella pop e mainstream per rivelarsi altro da sé…
Il finale ne suggella la natura: lo slogan si rovescia, non più “chi non osa non vince”, ma “chi non sa non vince”.
È un passaggio rivelatore, che sposta l’accento dal gesto atletico al sapere, dalla pura forza alla coscienza critica. Così l’opera, sotto le sembianze di un horror fatto di corpi scolpiti, violenza, sangue, arte e bellezza, si rivela come l’esame autoptico simbolico di un intero sistema — sportivo, sociale, esistenziale — colto nella sua fase di decomposizione. Lì, nel disfacimento, emerge una verità ineccepibile: solo chi sa, chi guarda con lucidità e senza illusioni, può dirsi vincitore, almeno rispetto a sé stesso.
 
Conquistare sé stessi è la prima e più nobile di tutte le vittorie; essere vinti dalla propria natura è la peggior e più ignobile sconfitta.
Platone
 
 

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