Con la fotografia mi piace creare una finzione partendo dalla realtà. Ci riesco prendendo i pregiudizi della società e dandogli una piccola torsione.
Chi è Martin Parr?
Parr è tipo quel signore inglese che se lo vedi in spiaggia con la macchina fotografica non pensi “oh, che artista” ma “oh, quello che sta fotografando me e la mia abbronzatura”. È un uomo che ha trasformato l’ordinario — bambini che mangiano fish and chips, vacanzieri che cercano sollievo dal sole, buffe bancarelle — in materia d’arte, satira sociale e specchio impietoso della nostra ossessione per il consumo.
I Am Martin Parr dura poco più di un’ora: un road-trip inglese tra spiagge, feste nazionali, crowds vari, scatti a colori saturi e qualche parentesi in bianco e nero. Parr cammina, osserva, fotografa, ritorna sui luoghi dei suoi lavori passati (tipo The Last Resort a New Brighton) per vedere quanto è cambiato (spoiler: sì, un po’ gentrificato).
Ci sono interviste, commenti — amici, altri fotografi, la moglie Susie — che aiutano ad aprire il sipario sul perché lui faccia certe foto, non solo su cosa faccia. Ma non aspettarti un “confessionale fino al midollo”: Parr rimane in parte il tipo tranquillo dietro la fotocamera, neanche troppo disposto a filosofeggiare troppo, preferisce che siano le immagini a parlare (anche se capiamo benissimo il messaggio).
Con la fotografia mi piace creare una finzione partendo dalla realtà. Ci riesco prendendo i pregiudizi della società e dandogli una piccola torsione.
Le sue foto sono come quei dolci che sembrano innocui ma poi ti riempi la bocca senza accorgertene — colori saturi, scene ordinarie caricate di dettagli kitsch, di ironia, di umanità. Ti mettono davanti alla tua stessa ossessione per il brutto-bellezza, per il bordello dell’estivo, per la cartolina che fa ridere ma anche riflettere.
Non è un attacco frontale al consumismo, non è un sermone morale, è più un “guardati intorno, anche tu sei parte del circo”. Parr ci cammina dentro, fotografa i turisti che vogliono distacco ma restano intrappolati nell’ansia dello scatto “instagrammabile”.
L’ossessione come motore creativo: il documentario non nasconde che Parr è ossessionato — ossessionato dal colore, dalla luce, dal dettaglio assurdo, dal momento paradossale che tutti ignorano. E in questa ossessione c’è qualcosa di tremendamente umano, quasi consolatorio, soprattutto quando capisci che fotografare è anche una specie di terapia (per lui, e forse pure per chi guarda).
Guardare I Am Martin Parr è un po’ come entrare in una boutique di souvenir dell’anima: ogni fotografia è una calamita, ti attira, ti diverte, ti fa sentire perso tra bicchieri di plastica, creme solari, asciugamani sgualciti, sorrisi imbarazzati al flash. Il doc è il prodotto perfetto per chi vuole riflettere sul “qui e ora” del consumismo: non arringa, non predica, ma ti mette davanti allo specchio, con costume da bagno, crema abbronzante che cola, e la fotocamera pronta.
Un doc divertente, intelligente, satirico, spigoloso, una festa kitsch del quotidiano e di montagne di spazzatura dietro il buffet, di storie non raccontate dietro il sorriso forzato. Però, nella sua ossessione, Parr ci ricorda che siamo tutti un po’ ossessionati: dalle vacanze, dal colore, dal riflesso, da ciò che consumiamo per convincerci che siamo speciali.
Parte del compito della fotografia è esagerare; ma il mio lavoro è anche quello di sgonfiare quell’esagerazione, mostrando il mondo così come lo trovo davvero.