La più radicale rivoluzione è quella che restituisce all’individuo la capacità di rispondere delle proprie azioni.
Hannah Arendt
Nel mondo di Panahi, il film non è solo racconto ma interrogazione sulla libertà, sul potere e sulla responsabilità personale di fronte all’ordine costituito. It Was Just an Accident si regge su una tensione sotterranea tra ciò che appare come caso e ciò che si rivela come destino scelto, o forse imposto.
La scena iniziale assume il valore di un paradigma: investire l’animale – vittima innocente – non è un mero incidente, è l’apertura di una catena di eventi che coinvolge la struttura del dominio, la memoria, il corpo segnato e la coscienza. La moglie che dice «era volontà di Dio» è simbolo della passività, dell’abdicazione della responsabilità: se tutto è voluto da Dio, allora io non devo chiedere, non devo assumerne l’esito. La figlia che contesta: «Dio non c’entra nulla», mette in rilievo il contrasto tra il determinismo religioso e l’agire umano. In questo scambio, il film ci invita a riflettere: non è l’apparato o la volontà celeste che decide, siamo noi – nei nostri gesti quotidiani – a tracciare la linea della responsabilità.
Il meccanico Vahid è il volto della memoria che rifiuta la neutralità. Il regime lo ha torturato, l’ha segnato, e ora quel gesto meccanico – riconoscere il movimento della gamba, ascoltare il suono della protesi – diventa il richiamo all’azione. Eppure l’azione non è immediatamente eroica: è carica di ambiguità, di errore possibile, di colpa potenziale. Questo è il grande dono del film: mostrare come la resistenza, la giustizia, la persecuzione non siano lineari ma intrise di responsabilità, auto-responsabilità. Nessuno può scaricarla sull’ordine dominante, sulla volontà divina, sull’errore accidentale. Il protagonista deve decidere, interrogarsi, assumere.
E allora la scena finale esplode come momento simbolico di riconciliazione impossibile e di chiamata alla responsabilità. Una donna che ha vissuto la sua atroce esperienza prende a schiaffi l’aguzzino – non come eroina angelicata, ma come figura che incarna il rifiuto dell’impunità, il rifiuto della neutralità. L’aguzzino, che fino a quel momento sfuggiva alla verità, è costretto – ad alta voce – a dire ciò che è. La parola radicale squarcia la menzogna, restituisce al torturatore la sua identità, e al contempo restituisce ai torturati la propria potenza. In quel gesto si coglie che la responsabilità non è solo di chi commette l’atto, ma di chi osserva, di chi tace, di chi lascia fare. L’ordine sociale perdura se non è interrotto dalla verità individuale.
In definitiva, It Was Just an Accident è un film che respinge la rassegnazione. L’architettura del potere reprime, tortura, annienta, ma la responsabilità – quella autentica – resta nella scelta individuale di agire, di non fuggire, di non affidarsi alla volontà divina. È un film che unisce la grammatica del thriller (il meccanico, l’agguato, il sequestro) con il lessico esistenziale del vivere in una società di soprusi. E ci ricorda che l’«incidente» – quel cane investito, quel gesto che sembra lieve – può essere l’avvio di una rivoluzione interiore.
Ne emerge un cinema della responsabilità, della memoria, dell’impegno esistenziale. Un cinema che, pur radicato in una realtà politica concreta (la repressione in Iran), si erge a ritratto universale: ciascuno di noi può essere attore di silenzi, di accuse che non vengono pronunciate, e ha la possibilità di spezzare la trama invisibile del dominio, almeno tentare senza negare.
In quest’ottica, Panahi non consegna una interpretazione ma indica – con la delicatezza di un martello – che si è complici se si rimane spettatori. Ci chiede: che farai, ora che la gamba ha fatto quel suono che conosci? Il rumore riecheggia nel finale per continuare a non essere ignorato.
Siamo condannati ad essere liberi: una volta gettati nel mondo, siamo responsabili di tutto che facciamo.
Jean Paul Sartre