I social sono la spiegazione scientifica di come l’encefalo del cervello possa adattarsi all’esperienza del vuoto cosmico.
(Fabrizio Caramagna)
L’Accident de piano è un’opera che s’inserisce senza compromessi nel magma contemporaneo delle reti digitali, dove l’ego diventa moneta e il dolore diventa spettacolo. Dupieux sceglie di non mascherare il suo sguardo ironico: piuttosto lo arma come lente deformante che riflette e ingigantisce i nostri vizî mediatici, la smania di visibilità e la caduta dell’empatia.
Magalie rappresenta un soggetto la cui identità è modellata dalle reazioni esterne: non prova dolore fisico, ma cerca costantemente di suscitare una reazione, di provocare uno shock. Il suo reale non è interno, ma è un palcoscenico in cui viene registrata ogni sua performance di sofferenza. In questo diventa figura limite: essere umano senza sensibilità, creatura del pubblico. È come se l’esperienza vissuta si riducesse al suo impatto mediatico.
Magalie — l’influencer insensibile al dolore — non è un mostro inventato: è il nostro monumento. Dupieux la osserva come si osserva una specie mutante, nata dal cortocircuito fra l’anatomia e l’algoritmo. Non sente il dolore, ma lo vende. Non prova vergogna, ma la monetizza. È la santa patrona dell’anestesia globale, quella che non ha bisogno di ideali né di senso: basta che l’algoritmo la adori per altri cinque secondi.
Dupieux esplora una zona di crisi: quando il corpo (anche danneggiato) diventa strumento, prodotto, “contenuto”. La protagonista non soffre, ma deve soffrire in modo “utile” allo show, alle visualizzazioni, al profitto che ne deriva. Il segreto che la giornalista minaccia di rivelare è anche metafora del pericolo che l’intimità, la ferita umana, diventi merce. Ma anche quest’ultima sta mercificando il prodotto per darsi visibilità e Magalie glielo fa notare e le fa vedere che neanche lei è libera e esente da questo sistema.
La costruzione narrativa — con flashback, la progressione dell’incidente, la minaccia della rivelazione — mantiene una tensione che sfugge al solo grottesco, diventando riflessione morale.
L’uso dell’assurdo, del grottesco, serve non solo a sorridere dell’eccesso, ma anche a mettere allo scoperto l’assurdità che già abita il reale. In altre parole, la satira non è orpello, ma lente critica.
L’Accident de piano è l’ennesima prova che Quentin Dupieux, dietro l’assurdo e il riso, non fa mai sconti. Il suo è un cinema che ti invita a ridere, ma di te stesso — e lo fa con la grazia spietata di chi, mentre sorride, ti indica lo specchio incrinato della specie umana.
Sì, perché se Nietzsche parlava dell’“umano, troppo umano”, Dupieux sembra dirci che ormai siamo scivolati oltre: nell’umano, irrimediabilmente disumanato, sedotto dal like e ipnotizzato dal riflesso del proprio profilo social.
Il film non costruisce una parabola morale, ma un’autopsia in diretta della nostra coscienza sociale. L’incidente, il piano, il sangue, le visualizzazioni — tutto scorre come una sonata per smartphone in cui la Marcia funebre n.2 op. 35 di Chopin torna come un requiem ironico per la nostra capacità critica: il mondo si autodistrugge a ritmo di like, e Chopin suona la fine dell’autocoscienza.
Dupieux punta il dito sul “nuovo” dio: la visibilità. Non quella illuminante, ma quella che brucia. Il follower diventa credente, il feed il suo tempio, l’influencer il suo messia tossico. Tutto è sacrificato sull’altare del Dio Denaro, che oggi ha preso la forma dell’attenzione, della viralità, dell’istante.
È un cristianesimo degenerato in streaming, dove al posto del perdono c’è la “condivisione”, e al posto del silenzio contemplativo ci sono stories di trenta secondi.
La dipendenza social che Dupieux mostra non è un disturbo — è la nuova forma dell’esistenza. Gli “istagrammer”, gli spettatori, gli haters, i commentatori compulsivi: tutti partecipano al banchetto, tutti si nutrono dello stesso vuoto. Nessuno escluso. Il mondo è un unico grande reality show eticamente disossato, moralmente svuotato, logicamente dissolto, dove la decenza è un ricordo archeologico e la razionalità una fake news.
In questo universo grottesco, il capitalismo non è più sistema economico ma stato mentale, e Dupieux lo sa. È un capitalismo adrenalico, senza cervello né rimorsi, che trasforma il dolore in merce, la privacy in spettacolo, la morte in contenuto sponsorizzato.
Il film denuncia — con un sarcasmo chirurgico — l’erosione definitiva di ogni capacità riflessiva: l’umano, in balia di sé stesso, non pensa più, ma scrolla. Non giudica, ma reagisce. Non comprende, ma commenta. È la dittatura del riflesso pavloviano, travestita da libertà digitale.
Dupieux stende un tappeto di cemento armato sull’ultima porzione di terreno fertile dell’anima contemporanea. Nessun germoglio di senso potrà più crescere: l’irrecuperabilità è sancita con eleganza e ferocia. Persino la risata — suo antico strumento di redenzione — diventa suono metallico, eco di una festa finita troppo tardi, dove nessuno si è accorto di essere già morto dentro.
Eppure il miracolo di L’Accident de piano è che tutto questo fa ridere. Ridere male, ridere amaro, ridere di noi. Dupieux ci lascia nel disagio più puro: un’umiliazione che si trasforma in consapevolezza. Non perché ci redima, ma perché ci restituisce, almeno per un istante, la lucidità del riso tragico.
È un film che sa essere terribilmente lucido sotto la maschera del grottesco, che ridicolizza l’umanità per pietà, non per crudeltà — ma è una pietà postuma, come quella che si prova per un animale estinto.
In definitiva, L’Accident de piano non è solo una satira sul mondo social: è il manifesto funerario di una civiltà incapace di distinguere la realtà dalla sua caricatura. Dupieux ci accompagna con ironia sinistra alla tomba del pensiero critico, mentre Chopin suona, beffardo, la sua Marcia funebre su un pianoforte sfasciato.
E noi, con un dito ancora sullo schermo, applaudiamo perché l’algoritmo ci ha detto che è il momento giusto per farlo.
L’homo sapiens: è passato dall’età della pietra all’età del digitale, senza mai passare per l’età della ragione.
(Fabrizio Caramagna)