La rivoluzione consiste nell’amare un uomo che ancora non esiste
Albert Camus
Un’opera profondamente politica un grido sospeso fra il mito storico e la denuncia contemporanea. È un film che invita a fermarsi in un ritmo contemplativo rifiutando la frenesia moderna per afferrare la densità del tempo.
La macchina da presa di Angello Faccini cattura gli altipiani andini con una delicatezza quasi sacra: ogni inquadratura è un quadro, e ogni paesaggio sembra respirare il peso della storia. Una fotografia mai decorativa, ma politica: ritrae un territorio che è teatro di oppressioni secolari. La lentezza della narrazione non è una lentezza vuota, ma una struttura deliberata, che sottolinea la resistenza del tempo, la persistenza delle ferite collettive.
Il varco temporale aperto dal meteorite — che porta Ángel dall’epoca di Túpac Amaru II al presente — non è solo un espediente narrativo, ma una potente metafora filosofica: la “fine del mondo” non è un evento che deve ancora accadere, ma qualcosa che è già iniziato, ovunque, da tempo. Qui la rivoluzione non è un capitolo concluso, ma un evento ciclico che si frammenta e si ricompone nei secoli. Il film chiede: la rivoluzione è davvero finita, o semplicemente si è trasformata?
Ángel, il rivoluzionario smarrito, porta con sé un ideale antico — ma quando si confronta con la violenza estrattivista contemporanea, con la devastazione ambientale, con le ingiustizie economiche, deve chiedersi se il suo sogno fosse utopia o condanna. Eustaquia, a sua volta, è segnata da un trauma personale (la scomparsa della sorella) ma anche da un dolore collettivo: porta sulle sue spalle la storia di oppressione che non si è mai chiusa.
La colonna sonora, composta da Inur Ategi, è disturbante nel senso più utile: non accompagna passivamente, ma punge. Le sonorità dialogano con il paesaggio, con il silenzio montano, con i suoni gutturali delle lingue indigene, con il frastuono dell’estrazione mineraria. Quel sottofondo inquietante non è solo estetico, ma politico: ci ricorda che il passato e il presente non sono separati, che la violenza di ieri è la violenza di oggi. Il dolore, in questo contesto, diventa rivelazione.
C’è un interrogativo esistenziale potente nel film: “Il dolore porta fine alla cecità?” Angel ed Eustaquia non solo vivono una rivoluzione esterna, ma interna. La loro lotta non è soltanto contro il potere, ma contro l’amnesia storica, l’indifferenza, l’oblio. Il meteorite che squarcia il tempo è un elemento mitico, ma al tempo stesso realistico: è il trauma della colonizzazione, è l’estrattivismo che frattura il suolo (fisico e simbolico), ma è anche la possibilità di una catarsi.
E quando Ángel chiede “contro cosa dobbiamo combattere, oggi?”, la risposta implicita è che il nemico non è solo esterno — è l’inerzia, è la rassegnazione, è la memoria mutilata. La rivoluzione non è più solo ideologica, ma ontologica: è la ricostruzione di una visione del mondo in cui la giustizia e la memoria siano intrecciate.
Il film opera una decostruzione del mito rivoluzionario e al tempo stesso lo riafferma: la rivoluzione non è un gesto eroico da romanzo, ma una pratica quotidiana, frammentata, dolorosa. Non si tratta di salti epici, ma di continue resistenze: l’ambientalismo, il diritto alla terra, la lingua quechua come strumento di decostruzione culturale.
La anatomía de los caballos è quindi una denuncia politico-esistenziale: non solo contro le multinazionali minerarie, ma contro la colonizzazione mentale che persiste nella memoria collettiva e nella rappresentazione storica. Il varco temporale non è una fuga, ma un attraversamento.
Nel film appare l’idea di un “binario” che sembra retrocedere per fare spazio al passaggio di un treno. Forse il “binario” è ciò che credevamo essere il progresso: lineare, inevitabile, direzionato. Ma il treno — la rivoluzione, il tempo, la memoria — viaggia contro di noi, emergendo dal passato, attraversando le epoche. È come se, per far passare il treno della giustizia, dobbiamo fare un passo indietro sul binario dell’illusione moderna, riconoscendo che il presente non è nuova terra, ma terreno già percorso, già contaminato.
In questo senso, La anatomía de los caballos non è solo un film storico, ma un progetto etico: un invito a guardare con occhi diversi. È una chiamata politica alla responsabilità, ma è anche una meditazione esistenziale sul tempo, sul dolore e sulla possibilità (o forse la necessità) di una rivoluzione che non sia solo epica, ma quotidiana. In un mondo spezzato, il film suggerisce che la guarigione comincia accettando che il varco che ci separa dal passato è anche quello che ci connette a un futuro possibile.
Il futuro è la sola trascendenza degli uomini senza Dio.
Albert Camus