La forza non è mai ciò che sembra.
Simone Weil
Ciò che colpisce in Laghat non è tanto la spettacolarità dell’ippica, quanto la profondità del suo sguardo alternativo. Laghat non è “normale”: è un cavallo che “non vede”completamente. Eppure — come nella vicenda vera a cui si ispira — riesce a correre, a vincere, a essere “fuoriclasse”.
Così come Laghat, anche Andrea è un ragazzo particolare: ha abbandonato le corse, è scivolato in un contesto grigio (il negozio di antiquariato del padre, ombre di affari loschi), che tuttavia gli consente una bella auto e un discreto benessere economico. Il ritorno in pista non è promessa di gloria, ma di rinascita esistenziale. La combinazione — giovane idealismo spezzato insieme al cavallo “scartato” dalla norma — diventa la materia di un racconto sulla possibilità di rimodellare ruoli, immaginari, aspettative sociali.
LAGHAT sfida l’ordine dell’efficienza, della norma, della prestazione “perfetta”.
L’azione scenica — la corsa, gli allenamenti, la pista — si trasforma in simbolo di comunione. Non è la velocità o la vittoria a contare, ma la capacità di costruire un linguaggio condiviso: Andrea e Laghat imparano a comunicare attraverso ritmo, tatto, fiducia. In questo processo la disabilità non è un ostacolo da nascondere né da “normalizzare”, ma una condizione che richiede tempo, attenzione, rispetto — e che rivela un senso diverso di performance: non più dominio e conquista, ma cura.
Dietro la vicenda sportiva si stagliano conflitti di natura antropologica e sociale: Andrea vive all’ombra di un padre autoritario e ambiguo e con un fratello, rozzo e violento. L’incontro con una Giulia, una groom della scuderia, autonoma, forte, dura e indipendente, funge da ancora emotiva per Andrea.
La relazione con Tony — l’ex allenatore — rappresenta un ponte tra il passato e una possibile autentica alternativa, ma non offre certezze: è un’opportunità difficile, fragile, che si potrà tradurre in rinascita solo attraverso sacrificio, fiducia e cambiamento interiore.
Pur radicato in una vicenda vera — quella di un cavallo realmente cieco capace di vincere grandi corse — LAGHAT non sembra puntare al racconto documentaristico, ma al dramma esistenziale: lo sport diventa campo di battaglia interiore, la corsa un rito di passaggio, il fantino e il cavallo protagonisti di una trasformazione metaforica.
Non è la grande vittoria che importa, quanto la possibilità stessa della corsa: la volontà di tentare, di fidarsi, di credere nell’“impossibile”. In questo senso, il film assume la forma di un’allegoria contemporanea sulla fragilità, l’emarginazione, la bellezza nascosta dell’anomalia — sul valore di ciò che non è perfetto: il talento.
C’è una crepa in ogni cosa. Ed è da lì che entra la luce.
Leonard Cohen