Left Handed Girl

Left Handed Girl

Shih Ching Tsou

Drama • 2025 • 1h 49m

Questo film è stato presentato a Roma film fest

Il film racconta il ritorno a Taipei di una madre sola, con due figlie — una grande (I-Ann) e una piccola (I-Jing) — dopo un periodo fuori città. La madre apre un banco in un vivace mercato notturno, la figlia grande si guadagna da vivere con un lavoro che è tutto fuorché innocente, la piccola vaga e osserva. 
Ma sullo sfondo non c’è solo la città; c’è la famiglia estesa, col nonno tradizionalissimo che disapprova che la bambina sia mancina definendo la sinistra come la “mano del diavolo”; un mondo in cui il patriarcato, la superstizione, l’ipocrisia familiare e la norma sociale sono i veri protagonisti.

Recensito da Beatrice 20. October 2025
 Forse l’arma psicologica più potente del patriarcato è la sua stessa universalità e longevità. Il patriarcato ha una presa ancora più tenace grazie alla sua capacità di spacciarsi per natura.
Kate Millett
 
 
Qui entriamo nel vivo: il film usa il gesto della sinistra non solo come dettaglio folcloristico, ma come piccolo strumento di allegoria.
La mano sinistra come sinonimo di pericolosa deviazione. 
La bambina che è sinistra: simbolo di ciò che non si controlla, di ciò che rifiuta la linea paterna della “giusta mano” (e per estensione della “giusta via”).
Il nonno e il patriarcato silenzioso che detta regole invisibili: “non essere / non fare / non uscire dai binari”.
All’interno di questo sistema, ciò che è “diverso”, ciò che non si conforma, è automaticamente scomodo — e la sinistra diventa un marchio, un’impronta che grida “io sono altra”.
L’ambientazione così diventa più che uno sfondo: è un campo di battaglia di norme sociali addomesticate, regole invisibili che si sussurrano, ma che pesano come macigni.
 
Il film non si limita però a dare la colpa al patriarcato: che in questo caso è la COLPA, enorme, implacabile e per la vita, ma ci mostra anche come le donne, le madri, le figlie, partecipino (spesso inconsapevolmente) al circuito dell’ipocrisia.
La madre, pur lottando, deve sottomettersi a esigenze economiche e sociali.
La sorella maggiore (I-Ann) vive una doppia vita: lavora, subisce, compra compromessi.
La piccola I-Jing assorbe, guarda, non le spiegano nulla. Nessuno le spiega perché “la mano sinistra è male”, perché certe cose non si dicono, perché certe cose vanno nascoste.
Ecco, l’ipocrisia non è rumorosa: è silenziosa, fatta di omissioni, di relazioni non dette, di ruoli assegnati e accettati — finché la bambina lo diventa l’adulta dell’ipocrisia stessa.
 
La figura della sorella maggiore è centrale: è colei che — pur dentro il sistema — ha uno sguardo critico. Non del tutto fuori, ma scomoda. Lei che subisce sul corpo e la psiche la violazione per eccellenza. Lei che non accetta il pregiudizio della mano sinistra, che la norma sia ferma, che l’unica via possibile sia quella prestabilita.
Il film sembra suggerire che in un tale contesto, chi si smarca dal copione (anche parzialmente) viene visto come “problema”. Non per la sua malvagità, ma per la sua disarmonia con l’ordine.
E qui viene alla mente il finale di Festen: la festa che esplode in verità, le maschere che cadono, i segreti che emergono in superficie. Il film fa un po’ la stessa cosa: la tensione accumulata tra silenzi, differenze, sguardi e mani sinistre arriva ad uno snodo — non violento, ma liberatorio — in cui le dinamiche diventano visibili. 
 
 I-Jing è lo sguardo innocente, la mano sinistra che non sa ancora perché è “diversa”. Assorbe tutto — la madre che lotta, la sorella che baratta, il nonno che condanna, la città che pulsa, il mercato che brilla — ma nessuno le spiega niente. Il silenzio, in questo film, è un’insegnante più efficace del verbo.
La libertà della piccola, che sarebbe potenziale di gioco, scoperta, creatività, rimane a metà strada: perché cresce in un mondo che le dice “usa la destra”, “non far vedere”, “nascondi”, “non essere d’intralcio”. E quindi il conflitto è sia interno  che esterno.
Il film, in questo, è malinconico: ci mostra la bellezza dello spirito libero e al tempo stesso la gravità delle strutture che lo comprimono. Non c’è redenzione, ma c’è resistenza, e questo è sufficiente.
 
La regia di Tsou spinge lo sguardo verso il reale, ma con consapevolezza estetica: la città colorata che brilla, il mercato notturno che sembra festa ma è fatica.
I personaggi: uomini e donne che sono insieme oppressi e complici. Smonta la facile opposizione bene/male e ci obbliga a osservare.
Il contesto sociale: il patriarcato non è solo il “maschio che comanda”: è sistema che condiziona generazioni, è mano sinistra demonizzata, è norma che opprime tanto quanto protegge. 
Il finale che esplode: come nella migliore tradizione del cinema che smaschera la famiglia, del film che dice “qui non va tutto bene” come sembrerebbe.
 
“Left-Handed Girl” sa essere lieve nel tono, ma grave nella sostanza: ride, ma non dell’umanità — ride con essa, dolorosamente.
E ci lascia con la sensazione che la mano o per estensione, ogni lato diverso, ogni deviazione dal “normale” — non sia solo una questione di lato, ma di coscienza, di verità, di libertà.
Non è un film sul patriarcato: è un film dentro il patriarcato. Ci mostra come la cultura, quando si traveste da “tradizione”, diventi un sistema di controllo capillare, capace di insinuarsi nei gesti, nei modi di stare al mondo, persino nella scelta di una mano. Non serve la violenza per perpetuare la sottomissione: basta il silenzio, l’abitudine, la ripetizione quotidiana.
 
È la cultura stessa, nella sua versione più rispettabile, a continuare a proliferare come un virus benigno, non uccide subito, ma indebolisce lentamente la capacità di scegliere: un altro modo per dire che la libertà, in certi contesti, resta un vizio da estirpare.
 
Non si nasce donna, lo si diventa. E in quel diventare c’è tutta la violenza di una cultura che decide chi devi essere.
Simone de Beauvoir
 

Questo film era in concorso ufficiale di Roma film fest

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