Leibniz – Chronik eines verschollenen Bildes

Leibniz Chronicle Of A Lost Painting

Edgar Reitz

Drama • 2025 • 1h 42m

Leibniz – Chronik Eines Verschollenen Bildes

Questo film è stato presentato a Roma film fest

Nel cuore della Prussia del primo Settecento, la brillante e raffinata regina Sofía Carlotta (ex allieva e discepola del filosofo Leibniz) commissiona un ritratto del suo maestro, desiderando tenerne sempre accanto l’immagine. Il grande pensatore Gottfried Wilhelm Leibniz accetta l’invito, penetrando nel trasparente codice della rappresentazione, mentre nella corte s’intrecciano desiderio estetico, riflessione filosofica e tensione dell’anima. 
Il primo pittore incaricato — un ritrattista assai famoso, ma superficiale — fallisce nell’incontro con la presenza del filosofo: posa dopo posa, espressione dopo espressione, egli cerca un’esteriorità, una superficie che catturi l’uomo, ma ignora che l’uomo non è superficie ma profondità. In soccorso viene chiamata la pittrice fiamminga Aaltje van der Meer, donna esclusa dal circolo ufficiale dei pittori, ma dotata di una sensibilità rara: ella intuisce che il ritratto non può essere mera somiglianza, e che il tempo stesso abita la tela. 

Recensito da Beatrice 19. October 2025
La musica ( l’arte) è un esercizio aritmetico nascosto dell’anima, che non sa di contare.


Nelle sedute per il dipinto si apre un dialogo intenso fra la pittrice e Leibniz: lui parla del mondo, dell’armonia delle monadi, del calcolo infinitesimale con cui tenta di cogliere l’infinitamente piccolo e l’unità del tutto; lei risponde che la tela vive del tempo del pigmento, della terra, del farsi dell’immagine. Il ritratto, alla fine, resta perduto — come se l’immagine non potesse trattenere la presenza, come se l’essenziale dell’uomo sfuggisse al solo sguardo. In questo spazio sospeso tra verità e apparenza, fra la volontà di rappresentare e l’impossibilità del ritratto perfetto, il film esplora il rapporto fra pensiero, arte, presenza e sensibilità.

Il film di Edgar Reitz, si pone come un’opera in cui il cinema riflette su se stesso — ed è al contempo una meditazione sull’essere, sul divenire, sul tempo e sull’immagine. Qui non si assiste semplicemente a una biografia in costume del filosofo Leibniz, ma a un confronto serrato: fra il pensiero della rappresentazione e la sensibilità che la abita, fra il rigore del calcolo infinitesimale e l’irriducibilità della persona.

Leibniz, filosofo universale, celebre per la dottrina che sostiene che viviamo nel “migliore dei mondi possibili”, e pioniere del calcolo infinitesimale — che indaga l’infinitamente piccolo per rilevare l’infinitamente grande — diventa qui non solo oggetto ma interlocutore dell’arte. Il suo universo filosofico suggerisce un ordine in cui ogni monade riflette l’universo intero, in cui ogni moto infinitesimale ha effetti sull’insieme. Nel film questo pensiero si fa metalinguaggio: la tela, la pittura, l’immagine filmica diventano “monadi” che tentano di riflettere l’intero uomo, ma inevitabilmente lo tradiscono per la loro parzialità. Egli dice, nella scena-dialogo chiave, che nella superficie di una tela «non c’è tempo» — perché la pittura sembra congelare il momento, ma non coglie il divenire. La pittrice, al contrario, osserva che nella tela il tempo c’è, eccome: il tempo della vita condivisa nell’atelier, il tempo della terra che ha generato i pigmenti, il tempo dell’esperienza che ha preceduto quella posa e aggiunge che c’è tempo anche in una natura morta, per gli stessi motivi menzionati. Interessante il volto di Liebniz immerso nella riflessione, mentre l’artista eni cia le sue riflessioni. 

Questo scarto tra la visione del filosofo e quella dell’artista diviene metafora dell’impossibilità del ritratto perfetto: perché l’uomo non è mero oggetto da fissare, ma soggetto in flusso, pensiero che si modifica, sensibilità che muta. Così come il calcolo infinitesimale pretende di cogliere il mutamento continuo attraverso l’infinitamente piccolo, il ritratto pretende di cogliere l’essenza attraverso la minima variazione — tuttavia quell’essenza rimane irriducibile a una posa, a un’immagine.

Nel film si avverte con forza la dimensione estetica come esperienza esistenziale: non mera decorazione, non puro ornamento, ma sensibilità che apre all’essere. L’artista donna — emblema di uno sguardo “altro” rispetto al potere ufficiale — porta in scena un’idea di bellezza che non si limita a “fare bella figura”, ma a rendere visibile la presenza di un pensiero, di una vita, di un tempo. È bello quel gesto che non nasconde la fatica, il dubbio, l’attesa. È bello quel viso che domanda e ascolta, quel silenzio che pesa più di una parola.

La sensibilità della pittrice – isolata dal circolo dei pittori per ragioni di genere, ma accomunata al filosofo nella ricerca – fa risuonare l’idea che l’arte vera abita l’interstizio fra la forma e l’informe, fra la luce che dipinge e l’ombra che rivela. Reitz privilegia inquadrature misurate, un kammerspiel intimo, nelle quali la luce segna i corpi, i volti e gli spazi con misura. 

I dialoghi fra Leibniz e la pittrice costituiscono il nucleo emotivo e intellettuale del film. Non si tratta di banalità biografiche, ma di una vera dialettica sul ritratto, sul vero e sul rappresentato. Lui, con la razionalità tipica del filosofo-matematico, difende una visione della pittura come superficie ideale, piuttosto che come storia. Lei risponde che nell’immagine è racchiuso tutto: il tempo che abbiamo condiviso, la terra che ha generato il pigmento, la posa, la luce, il silenzio. E aggiunge: se non avessimo pensato alla posa, se non avessimo vissuto quella giornata, se non ci fosse stato quel tavolo, quell’ombra, quel collo—il quadro sarebbe diverso. 

È un tema che attraversa il film: può un ritratto “rappresentare” la persona? Il film risponde che no, non può in assoluto, perché la persona è un divenire, un insieme di monadi in relazione, non un’immagine statica. Eppure il ritratto può indicare, evocare, suggerire. Può essere una monade che riflette l’universo del soggetto, ma non lo esaurisce.

Collegando la filosofia di Leibniz — che asserisce che viviamo in “il migliore dei mondi possibili” — il film suggerisce che l’arte e il pensiero hanno funzione teleologica: tendono a liberare la potenza, a fare emergere la ragione incarnata nella sensibilità. Non è un ottimismo ingenuo: il film non ignora la storia, non annulla la tragedia, ma suggerisce che la bellezza e la verità nascono nella relazione, nell’apertura, nel riconoscimento dell’altro. Così la pittrice, esclusa dal circolo maschile, diventa simbolo della possibilità che l’arte e il pensiero migliori vengano anche dal margine. Il ritratto perduto — il quadro scomparso — diviene metafora dell’imperfezione della memoria, dell’effimero dell’immagine, della fuggevolezza del tempo.

Il film è un’esperienza tanto intellettuale quanto sensoriale: un ipnosi a riflettere e al contempo a sentire. Il rigore della forma non toglie calore, la distanza della filosofia non esclude passione, la precisione del calcolo non annulla la bellezza. Pochi film oggi osano tanto: confrontarsi con il pensiero, la storia, l’arte, la sensibilità in un’unica cornice cinematografica. È un’opera che celebra la presenza del tempo nell’immagine, e insieme la sua irreversibilità.

Il film di Reitz è riuscito magicamente e logicamente a rendere visibile ciò che appare invisibile: la relazione fra l’essere e l’apparenza, fra l’idea e la forma, fra il calcolo infinitesimale dell’esistenza e la pienezza della sensibilità umana. Resta tuttavia un residuo, un margine di distanza — perché come Leibniz avrebbe riconosciuto, nulla è mai perfetto, ma in questa tensione risiede forse la bellezza più autentica.
Imperdibile 

Ogni semplice sostanza è un perpetuo, vivente specchio dell’universo.

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