Louise Bourgeois, la sculpture et la colére

Louise Bourgeois, La Sculpture Et La Colére

Marie-Ève De Grave

2024 • 56 mins

Marie-Ève de Grave costruisce il ritratto di Bourgeois come un archetipo di donna che non chiede permesso: nata a Parigi nel 1911, spostata tra fragilità e ribellione, tra un padre traditore, una madre malata, un'infanzia popolata da abbandoni e gelosie, e le ossa di calcate passioni artistiche che non trovavano riposo. Il film attinge a diari, lettere, schizzi, sculture — e con queste tessere ricostruisce non solo la vita, ma il modo in cui Bourgeois visse il corpo, in quanto donna, in quanto artista, in quanto soggetto che non può né vuole nascondere le proprie tensioni.

Recensito da Beatrice 11. October 2025
Nella mia scultura non cerco un’immagine, né un’idea. Il mio scopo è rivivere un’emozione passata. La mia arte è un esorcismo, e la bellezza è qualcosa di cui non parlo mai.

C’è un momento in cui l’arte smette di essere solo forma, colore, materia, e diventa confessione — il film Louise Bourgeois, la sculpture et la colère lo capta con uno sguardo che non si limita a documentare, ma che entra nella carne del ricordo. Non è biografia ordinaria: è un’esplorazione dei tormenti, delle tensioni intime, delle ferite invisibili che plasmano un corpo artistico che non smette mai di interrogarsi.

Marie-Ève de Grave costruisce il ritratto di Bourgeois come un archetipo di donna che non chiede permesso: nata a Parigi nel 1911, spostata tra fragilità e ribellione, tra un padre traditore, una madre malata, un'infanzia popolata da abbandoni e gelosie, e le ossa di calcate passioni artistiche che non trovavano riposo. Il film attinge a diari, lettere, schizzi, sculture — e con queste tessere ricostruisce non solo la vita, ma il modo in cui Bourgeois visse il corpo, in quanto donna, in quanto artista, in quanto soggetto che non può né vuole nascondere le proprie tensioni.
Bourgeois crede che l’arte sia un’esorcismo. 
Che scolpire, ritrarre, manipolare la materia sia farsi carico, di un dolore che è altrimenti un peso ingombrante. La scultura, nel documentario, non è soltanto oggetto estetico ma corpo — un corpo ferito, un corpo in lotta. Le sue opere falliche, i seni, le gambe intrecciate, le teste di stoffa, le “Cells”, le installazioni che sono stanze di memoria e come tali gabbie e liberazioni insieme. Ogni forma che emerge ha una doppia faccia: da un lato la vulnerabilità, dall’altro una sorta di potere che nasce dall’essere stati feriti e aver resistito.

C’è poi un tema che il film solleva con incisività: autonomia femminile. Se il corpo della donna è spesso soggetto di sguardi — dell’uomo, della società, dell’artista — la domanda che permea è: come può una donna essere autonoma se deve costantemente compiacere, adeguarsi, nascondere o modellare il suo corpo secondo le richieste altrui? Bourgeois non offre compromessi: la sua arte urla che non c’è autonomia se non nella libertà di essere intera, fragile, arrabbiata.

Sono stata all’inferno e ne sono tornata, e lascia che ti dica: è stato meraviglioso

Nel film la corporeità di Bourgeois non è idealizzata, ma tangible, offesa, amata, soggetta alla memoria. Il corpo diventa materiale d’arte, ma anche di dolore: maternità, sessualità, fragilità fisica e psichica, abbandono, identità. Le sue “Femme-maisons” sono corpi che portano la casa dentro di sé: organismi che custodiscono dentro le spalle le stanze del passato, le porte chiuse, le finestre che avrebbero dovuto proteggere. E, allo stesso tempo, il corpo è ciò su cui si rovescia la rabbia: contro la norma, contro il "bisogna piacere", contro la forza maschile che pretende ordine e obbedienza.

Il documentario non nasconde le contraddizioni: Bourgeois non si riconosce del tutto nel femminismo esplicito, ma la sua vita e il suo lavoro diventano inevitabilmente un paradigma femminista perché delineano un percorso di liberazione interiore e materiale. La voce che si alza è quella di chi chiede rispetto, ma anche comprensione: non come figura archetipica, ma come donna che ha sentito il vuoto, la paura, la rabbia, e che ha usato la scultura per trasformare questi in materia che parla.

I punti di forza sono molti: la delicatezza con cui le immagini d’archivio si intrecciano alle sue parole; la chiarezza con cui il film mostra che per Bourgeois l’arte non è ornamento, ma sopravvivenza; la tensione tra il minuscolo (schizzi, diario, tessuti) e il monumentale (sculture, installazioni, l’“Maman” ragno che domina lo spazio simbolico).

Un possibile limite è che, in circa 56-57 minuti, il documentario deve comprimere sette decenni, e alcune sfumature rischiano di restare ombre dietro la luce intensa del trauma. Alcune opere, alcune stagioni artistiche (ad esempio il periodo di sperimentazione con materiali meno “classici”), potrebbero meritare un approfondimento maggiore. Ma forse il film non vuole essere esaustivo: vuole piuttosto evocare, provocare, far risuonare.

Louise Bourgeois, la sculpture et la colère è un’opera che conferma che il confine tra arte e vita, tra il dentro e il fuori, tra ciò che ci definisce e ciò che ci ossessiona, è labile, ma necessario. È un film che non solo celebra un’artista, ma rende presente il dolore, la ribellione, il corpo come campo di battaglia e grembo di creazione. È un invito: guardare, sì, ma ascoltare; non soltanto ammirare le forme, ma sentire la voce che trema al loro interno.
 
Un’artista può mostrare ciò che gli altri hanno paura anche solo di esprimere.
 
 

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