Mo Papa

Mo Papa

Eeva Mägi

Drama • 2025 • 1h 28m

Questo film è stato presentato a Torino Film Festival 2025

Tallin. Eugen, un ragazzo di 28 anni che esce di prigione dopo aver scontato dieci anni per via di un incidente tragico, la morte del fratello minore. Dietro quell’evento c’è un’eredità dolorosa: Eugen è stato abbandonato dai genitori in tenera età e ha trascorso l’infanzia in un orfanotrofio. 
 
Una volta lib­ero, il suo mondo appare fragilissimo e scollegato: l’unico legame sopravvissuto è con un padre estraneo, l’uomo che lo aveva lasciato da bambino, e con due amici d’infanzia, Stina e Riko, anch’essi cresciuti in istituto. 

Recensito da Beatrice 25. November 2025
L’abbandono è la condizione primordiale dell’essere umano, un’angoscia che ci riconduce alla radicale solitudine dell’esistenza.
Jean-Paul Sartre
 
Il nome Eugen deriva dal greco εὐγενής (eugenēs), che significa letteralmente “di nobile origine” o “ben nato”. Questa radice etimologica introduce un contrappunto profondamente ironico e tragico rispetto alla vicenda del protagonista: Eugen è infatti segnato dall’assenza, da un’origine lacerata, da un senso di abbandono che sembra negargli la possibilità di vivere pienamente quella nobiltà insita nel nome. Il suo percorso diventa così un viaggio alla ricerca di una legittimazione esistenziale, di un riconoscimento che non è solo sociale ma anche ontologico, un desiderio di rinascita che rispecchia la tensione tra ciò che il nome promette e ciò che la vita gli ha tolto. Questo disallineamento tra il significato del nome e la realtà vissuta amplifica la portata simbolica del film, trasformando Eugen in un archetipo moderno dell’uomo che lotta per riconquistare la propria dignità interiore, malgrado le radici spezzate.
 
Mentre Eugen brama una riconciliazione, le ferite mai risanate lo spingono in un doloroso vortice di autolesione. Le sue speranze di perdono naufragano nell’ombra del senso di colpa; il suo desiderio d’amore si scontra con l’odio verso se stesso. Mo Papa esplora questo ciclo devastante del trauma, dove l’amore assume le fattezze della vendetta interiore e il perdono è ostacolato da una responsabilità che sembra non appartenere solo a lui. 
 
La regista Eeva Mägi racconta che il film è nato senza un copione tradizionale: non è scritto, ma “sentito, respirato, vissuto”. La pellicola trae ispirazione da voci autentiche, da esperienze reali, anche dal lavoro di Mägi in una clinica psichiatrica, e si sviluppa in maniera organica, quasi documentaristica. 
 
 
Mo Papa è un’opera che pulsa dell’urgenza di un’esistenza interrotta, un racconto filmico in cui il disagio esistenziale emerge come un’eredità indelebile. Eugen non è solo un uomo che ha vissuto una tragedia: è l’incarnazione stessa di ciò che significa crescere nel vuoto, nell’assenza di radici affettive, e portare con sé il peso di un abbandono come una ferita esistenziale non rimarginabile. 
 
Il percorso smantella ogni meccanismo narrativo ordinario per restituire un’esperienza che sembra attraversare la carne. La scelta di rinunciare a un copione scritto è cruciale: i personaggi nascono da incontri reali, da storie di vita che non sono mera ispirazione, ma struttura stessa del film. Questo approccio conferisce all’opera una grande potenza: il dialogo tra i personaggi non è recitazione ma confessione, e ogni gesto appare al contempo fragile e inevitabile. 
 
Eugen, tornato libero, si muove come un’anima in frantumi: davanti a lui, il padre che lo ha abbandonato, simbolo di un amore che non ha mai saputo essere tale, e due amici d’infanzia che rappresentano gli unici punti di contatto con quello che era stato. Ma quei punti di contatto, sebbene preziosi, non bastano a ricucire la sua identità. Il dolore che egli porta non è solo per la morte del fratello, ma per un’origine mancata, per una genitorialità negata. Questo trauma primordiale alimenta un circolo perverso: Eugen desidera il perdono, ma il perdono sembra un lusso irraggiungibile perché il senso di colpa non è solo per ciò che ha fatto, ma per ciò che non ha mai ricevuto.
 
Il film rivela una verità esistenziale tragica: chi è stato abbandonato da bambino non porta solo ricordi, ma un’eredità che si manifesta come un copione involontario, come una mappa invisibile che traccia percorsi di autodistruzione. L’amore, in questa geografia dell’anima, si confonde con il rifiuto, e la tenerezza diventa un riflesso del rancore.
 
Mägi dirige con uno sguardo quasi liturgico, come se stesse celebrando un rito doloroso di confessione. Le immagini sono semplici ma dense: non serve un estetismo barocco quando il peso emotivo è già abbastanza forte da riempire lo schermo. Il suono, la musica, il montaggio: tutto contribuisce a restituire la sensazione di un’anima che cerca disperatamente una via d’uscita ma si perde nei suoi stessi pensieri.
 
In questo senso, Mo Papa non è un’indagine sull’eredità del trauma, su come le ferite dell’infanzia diventino parte della struttura stessa di chi siamo. 
L’espressione artistica di un disagio permanente, un rituale narrativo sul senso di colpa, l’abbandono e la ricerca, e un richiamo potente a non dimenticare che il trauma è indelebile. 
 
Che freddo che fa nell’inferno di chi è stato abbandonato.
Fabrizio Caramagna
 

Questo film era in concorso ufficiale di Torino Film Festival 2025

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