Nino

Nino

Pauline Loquès

Drama • 2025 • 1h 36m

Questo film è stato presentato a Roma film fest

Nino, va in ospedale pensando a un fastidio banale, per poi scoprire una diagnosi che improvvisamente sconvolge il suo mondo: neoplasia alla gola. Subito gli viene chiesto di compiere scelte che travalicano l’oggi: preservare la possibilità di avere figli, affrontare la verità con le persone care, delineare nuovi confini di sé prima che la terapia inizi. Questi eventi si susseguono in un arco temporale breve, confinato ad una settimana, ma capace di rappresentarne l’intensità.

Recensito da Fabian 18. October 2025
Il corpo è la vera biografia dell’uomo: il resto è letteratura.
Philip Roth
 
Nino non è un film che si lascia leggere con superficialità: è piuttosto un cammino interiore, una mappa di incertezze che si dipanano fra le mura familiari, le vie di città, i silenzi della comunicazione. La regista, al suo esordio nel lungometraggio, propone non tanto un dramma sulla malattia, quanto una riflessione delicata e profonda sul tempo, sull’identità e sulla fragilità dell’esistenza. 
 
Il problema di  in Nino non è soltanto il corpo che cede, non è solo la diagnosi o la sofferenza fisica: è frattura esistenziale, momento limite che costringe a interrogarsi su ciò che davvero si è, su ciò che si può ancora diventare. Lo sguardo del film resta sempre vicino al quotidiano – al gesto semplice, al respiro interrotto, all’atto di comunicare con chi ami – ma nel quotidiano si annida la possibilità della trasformazione profonda.
 
Particolarmente toccante è come venga trattato il tema della preservazione della fertilità – la conservazione del seme come gesto che parla al futuro. Non è un dettaglio tecnico, bensì una promessa che l’io fa al proprio domani, un modo per affermare che la propria vita non sarà ridotta alla malattia ma che essa si proietti verso ciò che ancora non è, verso la possibilità di una continuità affettiva. È un pretesto narrativo che Loquès usa con eleganza: non lo sfrutta per emotività facile, non lo lascia diventare evento patetico. Al contrario, è apertura, punto focale per meditare sul rapporto tra ciò che perdiamo e ciò che speriamo, fra ciò che di noi resta nella memoria altrui e ciò che può restare nella linea del tempo che non abbiamo scelto.
 
Lo stile del film è sobrio ma ricco di sfumature. La regia evita la retorica dell’ospedale, delle lacrime a comando, del gesto eroico: preferisce l’ombra, le piccole rotture del linguaggio (una frase interrotta, uno sguardo che non appartiene al presente), la sospensione fra normalità e disorientamento. Ci sono momenti che rasentano l’ironia lieve, non per sdrammatizzare forzatamente ma per restituire l’umanità del protagonista che non smette di essere giovane, imperfetto, incerto.
 
Nino pone domande che restano dopo la visione. Che cosa significa essere giovani quando il futuro ci viene tolto, anche solo per un attimo? Come orientarsi quando la vita chiede decisioni che sembravano lontane? Qual è il valore del corpo che cambia, della voce che si incrina, ma che ancora desidera esprimersi? E, soprattutto: come parlare dell’amore, dell’appartenenza, della famiglia quando tutto sembra messo in discussione dalla malattia?
 
Il film suggerisce che la malattia, pur nell’orrore che porta, può diventare occasione di sincerità, di profondità: spingendoci fuori dai ruoli consueti, dalla superficialità delle relazioni, costringendoci a vedere ciò che spesso ignoriamo finché tutto resta “normale”. Non dice che è bello ciò che fa male; dice piuttosto che in quel dolore, nella precarietà, c’è una la possibilità della revisione.
 
Un film che guarda gli interstizi dell’anima, che non risolve ma accompagnano, Nino è un’esperienza rara, una lezione di gentilezza nel modo più profondo.
 
L’interpretazione di Théodore Pellerin è straordinaria: dà corpo a Nino con una delicatezza che trascende la recitazione “tecnica”. È nell’incertezza dei suoi movimenti, nel modo in cui reagisce al mondo esterno – all’amico che prepara la festa di compleanno, alla madre, all’ex –, che si manifesta la verità del personaggio. Pellerin non cerca l’onnipotenza emotiva; al contrario, lascia spazio al vuoto, al silenzio, al tremore della voce. Ed è proprio lì che il film trova la sua autenticità.
 
Essere vivi è così strano che talvolta sembra una malattia.
Clarice Lispector
 
 

Questo film era in concorso ufficiale di Roma film fest

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