L’amore è cieco, ma il matrimonio ripristina la vista.
— Georg Christoph Lichtenberg
La storia evidenzia quanto la distanza tra due coniugi (o tra genitori e figli) nasca non da grandi drammi, ma da accumulo di silenzi, piccole omissioni, incomprensioni sottili. È lì che Leroy funziona: nei vuoti non detti, non nelle esplosioni. Il viaggio nei luoghi emblematici della vita familiare è un espediente narrativo efficace. Serve a far emergere ricordi condivisi, nostalgie mai spente, rimpianti percepibili.
All’interno di questa tessitura si innestano momenti di leggerezza, punteggiati da battibecchi ironici o da fugaci sospensioni comiche che, pur senza scalfire la gravità del tema, ne alleggeriscono il carico emotivo. Tuttavia, il nucleo narrativo – la famiglia sull’orlo della disgregazione, con il tentativo di salvarla nell’arco di un weekend – appartiene a una costellazione di déjà vu cinematografici. La famiglia Leroy non sempre riesce a reinventare la formula: spesso si adagia nella prevedibilità, abbracciando un registro rassicurante, quasi pacificato.
La calibratura dei conflitti e la misurazione delle emozioni restituiscono una costruzione che sfiora la sterilità. Se da un lato è apprezzabile il rifiuto del melodramma ridondante, dall’altro la perfezione “da laboratorio” sacrifica proprio quell’imperfezione che rende il reale tangibile e vulnerabile. Il ritmo si dilata, le sequenze introspettive si prolungano oltre il necessario, e l’attesa di una rivelazione inattesa si dissolve in un prevedibile decorso narrativo.
Il risultato è una pellicola elegante e ben interpretata, che non ambisce a riscrivere le coordinate della commedia familiare francese, ma piuttosto a offrirne una declinazione intima e consapevole: un affresco tenero di ciò che accade quando l’amore smette di essere un presupposto e torna a reclamare attenzione. Si avverte un senso di familiarità quasi domestica – come il profumo della casa d’infanzia, appena alterato da mobili ricollocati, conflitti addomesticati, sorrisi di circostanza.
Eppure, al di là di qualche passaggio divertente, l’opera rimane intrappolata nella sua programmaticità: un congegno narrativo che procede in autopilota, più interessato a rassicurare che a disturbare, più incline a levigare che a rischiare. Ne emerge un cinema pulito, garbato, ma privo di quel gesto creativo capace di scalfire lo spettatore, di esporlo a un’imperfezione fertile. Un film che accarezza, ma raramente ferisce: l’ennesima variazione sul tema, educata, rifinita, ma incapace di trasformare l’ordinario in esperienza.
Il matrimonio è la causa principale del divorzio.
— Groucho Marx