Ogni montaggio è una menzogna.
Jean-Luc Godard
Richard Linklater, con Nouvelle Vague (2025), firma una graziosa rêverie in bianco e nero che scivola nel sangue come un ricordo del cinema stesso. È «molto piacevole» nel senso migliore: leggero, invitante e senza pudore innamorato della Nouvelle Vague francese — della sua rivoluzione, della sua grammatica, del fumo di sigarette e della verve da marciapiede.
Inquadrato come il making of di À bout de souffle, il film funziona insieme da ricostruzione e conversazione. Linklater mette in scena angoli di caffè, stanze d’albergo anguste e scoppi di riprese a livello strada con una strizzata d’occhio, ma mai con un sogghigno. Gli attori sembrano sorprendentemente identici alle icone che portiamo in testa — la scrollata di spalle sfrontata di Belmondo, lo sguardo cangiante di Seberg — e tuttavia le interpretazioni non sono una mimesi da museo delle cere: suonano vissute, affettuose e sottilmente consapevoli dei miti che abitano.
Girare in un nitido bianco e nero non è solo un cosplay stilistico — è una tesi. I toni sono tattili, la grana espressiva, le ombre raccontano quanto i dialoghi. Si avverte la velocità e la scioltezza dell’epoca: salti di montaggio nello spirito, se non sempre nella forma; suono in presa diretta che respira; inquadrature che vagano perché la curiosità le porta lì.
Ciò che dà al film uno scatto in più è il modo in cui affianca Breathless al movimento che l’ha generato. The 400 Blows di Truffaut aleggia lì vicino come una bussola — un altro punto d’origine della rottura della Nouvelle Vague con la patina di studio e le regole ereditate. Linklater si toglie il cappello davanti a quella rivoluzione senza imbalsamarla: la libertà della macchina a mano, il casting di strada, la sensazione che il cinema possa essere un momento giornalistico e quello dopo poetico. Non guardi solo degli omaggi; ne percepisci il perché.
È anche molto gradevole — senza fronzoli, accogliente, una bella compagnia con la storia del cinema. Per i neofiti è un’eccellente porta d’ingresso allo studio del cinema, specialmente quello francese tra la fine degli anni ’50 e i primi ’60: ne catturi l’atmosfera, gli strumenti, le personalità e il senso del tempo, senza ansia da compiti. Per i devoti, c’è gioia nei dettagli — il modo in cui un’inquadratura si allinea a un fotogramma ricordato, la cadenza di una battuta, uno sguardo rubato che sembra una nota a piè di pagina che prende vita.
«Molto ben riuscito» calza qui perché il film è ambizioso con misura e centra i suoi obiettivi: evoca un’epoca, abbozza un processo e lascia che la sua cinefilia brilli più che abbagliare. Alla fine vien voglia di rivedere À bout de souffle, di ritornare su The 400 Blows e di tuffarsi ancora più a fondo nella cassetta degli attrezzi della Nouvelle Vague. È il segno di un tributo intelligente: non chiude un capitolo; ti rimanda all’inizio.
Non credo si debbano provare emozioni per un film.
Jean-Luc Godard