Niente al mondo è più morbido e debole dell’acqua, e tuttavia nessuno può resisterle.
Lao Tzu
Quando Ray dice a Colin che ha una «predisposizione per la devozione», non sta semplicemente lanciando un complimento: è una diagnosi, una constatazione cruciale.
Colin non è solo disposto a obbedire; è strutturato per farlo, per piegarsi, per trovare nella sottomissione non una perdita, ma una forma di appartenenza.
Ma questa devozione, così genuina, diventa anche un’arma a doppio taglio: Ray, arriverà al punto di non riuscire più a controllare una situazione che sembrava completamente nelle sue mani.
Non sa gestire il sentimento che ne scaturisce. Di fronte alla profondità di quel legame, Ray reagisce.
È proprio qui che si rivela la fragilità dell’uomo-dominatore: la sua forza non risiede nell’imposizione perpetua, ma nell’incapacità di sostenere la disequilibrata vulnerabilità che emerge. In quel momento, Ray non è più solo padrone: diventa spettatore spaventato del suo stesso modo di essere che lo riflette inaspettatamente in modo inaccettabilmente umano.
In Pillion, le incursioni nel mondo dei bikers con tutine in latex, assumono una qualità quasi bucolica, come se la radura in cui si raccolgono fosse un’appendice fuori dal tempo, un santuario rurale in cui i codici della dominazione si trasformano in rituali comunitari. In queste scene, gli uomini che si offrono in pasto ai loro partner-padroni non appaiono degradati, sebbene buffi e a tratti eccessivi, ma immersi in una sorta di liturgia terrestre: corpi inginocchiati nell’erba, adagiati proni su tavoli come prodotti di consumo, sguardi che oscillano tra timore e abbandono.
La sottomissione diventa un atto pastorale, una forma di appartenenza che cerca nella natura una cornice di autenticità. È come se l’ambiente stesso — il vento tra gli alberi, il rumore distante dei motori — desse legittimità a quella dinamica di potere, facendone emergere il nucleo più arcaico: il desiderio di affidarsi, di lasciarsi tenere, di essere riconosciuti nel proprio impulso a servire.
Lighton, al suo esordio, dirige con una delicatezza divertente e ironica una realtà implacabile: ignorando il sensazionalismo, preferendo un realismo sobrio, quasi domestico.
La regia non celebra la trasgressione come puro shock estetico, ma come un terreno di scoperta interiore. Colin cucina, pulisce, dorme sul pavimento, si rade la testa — atti che, in una dinamica convenzionale, sembrerebbero umilianti, ma nel contesto del rapporto assumono un valore quasi sacro, rituale. È come se ogni gesto fosse un passo in più verso una forma di libertà che non è quella della ribellione, ma quella della resa.
Ma Pillion non è un semplice apologo della sottomissione. È anche la storia di un uomo che, attraverso il sacrificio di sé, impara a stabilire i propri limiti. Colin desidera non solo servire, ma essere visto, amato — e chiede a Ray qualcosa di radicale: un giorno di tregua, una dimensione «normale» di coppia.
Quando Ray rifiuta, non è solo un no erotico: è un rifiuto esistenziale, un diniego alla possibilità che il loro legame diventi qualcosa di diverso, di più morbido, di più vulnerabile, trattabile.
La fotografia del film, le ambientazioni sobrie della periferia inglese, il contrasto tra la casa domestica di Colin e l’aura austera del mondo biker, tutto concorre a costruire un universo sospeso tra brutalità e tenerezza.
Luce, silenzio e pelle: Lighton usa questi elementi come strumenti per sondare il mistero del desiderio, per demistificare il potere e rivelare l’intimità che si cela dietro la dominazione.
Pillion è una meditazione sulla devozione come vocazione, su come l’amore possa essere al tempo stesso liberazione e prigione. Ray non sembra pronto ad accogliere ciò che ha creato: non sa costruire un rifugio che non sia anche un recinto. E Colin, pur subendo la forma più estrema di abbandono, esce trasformato: non più semplicemente un sottomesso, ma un uomo che ha osato chiedere d’essere amato, anche nel suo desiderio più oscuro.
Finché non renderai cosciente l’inconscio, esso dirigerà la tua vita e tu lo chiamerai destino.
Carl Gustav Jung