La società pretende che le donne siano colpevoli ancora prima che siano persone.
Hannah Arendt
Sin dall’origine dei miti — Eva, Pandora, le donne accusate di stregoneria — la cultura patriarcale ha inscritto la donna nell’equazione col male, col peccato, con la perversione del desiderio e con la punizione. In Que ma volonté soit faite, questo archetipo ancestrale torna in forma narrativa e viscerale. Nawojka viene condannata non per ciò che fa, ma per ciò che sente: il suo desiderio è punito perché è donna, perché tocca quelle corde di natura, desiderio e potere che la società ha da sempre demonizzato.
Il film fa di questa dinamica un rito — un rito sporco, viscerale, inquietante — dove la colpa non ha bisogno di essere commessa: basta essere donna, sentire, provare. La “possessione” di Nawojka non è metafora ma condizione esistenziale: un’impronta genetica, familiare, culturale.
Così come Pandora aprì il vaso e riversò mali sul mondo, così per la protagonista ogni fremito di vita — desiderio, attrazione, brama — si carica di colpe antiche, senza che lei abbia fatto nulla di male. In questo la pellicola rimuove ogni illusione di innocenza: il peccato non è atto, ma appartenenza; il corpo femminile è terreno di sospetto, terreno sacrificale.
Ma non è solo rito di colpa: Que ma volonté soit faite è anche — e soprattutto — un percorso di liberazione. Attraverso la dissoluzione delle certezze (famiglia, comunità, ruolo sociale), il film mostra il corpo come campo di battaglia e come soglia verso un altro stato di esistenza. La trasformazione di Nawojka, dolorosa e spaventosa, è insieme catarsi e sfida — la sua carne tradisce, ma al contempo rivendica.
L’arrivo di Sandra, libera e “diversa”, è un segnale: un’alternativa possibile, un risveglio del desiderio non come peccato ma come slancio verso il sé. Le donne del film — Nawojka e Sandra — diventano due facce di una stessa resistenza: l’una al principio, l’altra in viaggio.
Quando la pellicola travalica il realismo per abbracciare il fantastico — trance, visioni, possessioni — non lo fa per spettacolarizzare il male, ma per mostrarne la natura archetipica, universale, eterna. Il male non è incidente, è struttura. E, per questo, l’unica via di salvezza è interromperne la circolarità: non più corpo come prigione, ma corpo come soglia di una liberazione radicale.
Nella messa in scena di Kowalski ogni immagine, ogni inquadratura sembra cercare la materia che si contorce — fango, pelle, sudore, vulnerabilità — rendendo il film concreto, sfibrato, crudo. La scelta della pellicola 16 mm, la fotografia granulosa, la chimica dell’immagine: tutto concorre a rendere palpabile la carne, la terra, la vergogna, la trasformazione.
A intrecciarsi con la parabola esistenziale delle protagoniste c’è anche la lenta, sinistra moria del bestiame, contaminato da una sostanza lattiginosa, un fluido pseudo-seminale e gelatinoso la cui origine resta indecifrabile. È un liquido che sembra provenire da un altrove simbolico, quasi mitologico, come se la terra stessa espellesse un eccesso di desiderio corrotto, di energia rimossa, di colpa accumulata nei secoli. Il bestiame agonizzante diventa così un doppio del corpo femminile: attraversato da un veleno antico, giudicato senza processo, sacrificato da una comunità che preferisce temere ciò che non capisce. In questo paesaggio fisico e morale contaminato, la violenza non è un incidente, ma un principio strutturale: emerge dai corpi, dal suolo, dalla tradizione, dalla paura del femminile come fonte di caos e di disordine.
La scena della caccia al cervo assume allora un valore simbolico ancora più minaccioso: non è solo un atto venatorio, ma la messa in scena del tentato stupro di Sandra, punita dalla comunità maschile per il suo essere troppo libera, troppo indipendente, troppo non allineata. In quel momento, l’uomo armato non insegue la selvaggina, ma il corpo femminile percepito come anomalia; non mira a una preda, ma a ristabilire l’ordine patriarcale. L’intervento di Nawojka interrompe questa coreografia predatoria, ma non la logica del sacrificio: sarà infatti Sandra a diventare il vero capro espiatorio, colei che verrà offerta all’altare della comunità per placarne le paure, come se eliminando lei si potessero mettere a tacere tutte le forze oscure che minacciano l’ordine stabilito.
E nella scia di questo sacrificio imposto, Nawojka affronta il proprio destino attraverso un rito auto-sacrificale del fuoco, gesto tremendo e solenne con cui mette alla prova la sua stessa possibilità di salvezza. Si consegna alla fiamma come offerta e come atto di sfida, in attesa di un segno che non provenga dagli uomini ma dalla natura stessa: sarà la pioggia, se vorrà cadere, a dichiararla degna di vivere. È un momento che supera il simbolo e sconfina nel mito: nel fuoco la condanna, nella pioggia l’assoluzione. Una sospensione cosmica in cui il corpo femminile, finalmente, non è più teatro di colpa ma di volontà, non sacrificio imposto ma scelta radicale di rinascita.
Quando la violenza esplode — contro gli animali, contro i corpi — non è gratuita: è conseguenza logica di un sistema che considera la donna un monolite peccaminoso, da domare o da sacrificare. E nel rituale finale — che possiamo leggere come esorcismo, dannazione o rinascita: un corpo, consumato dal delirio e dalla repulsione del mondo, possa anche diventare un atto di volontà, un atto di lotta.
Que ma volonté soit faite risuona tra i miti capitali: Eva, Pandora, la strega, la madre condannata; ma anche tra le ossa di un presente in cui la donna — ancora — è sospettata, relegata, demonizzata. Julia Kowalski impone lo sguardo sul corpo che non è più possesso, ma strumento di rivendicazione, e lo accompagna con la colonna sonora disturbante ma totale di Daniel Kowalski.
È un film che porta avanti un’urgenza: distruggere l’idea del peccato come appartenenza femminile, rigettare la vergogna che nasce non dal gesto, ma dall’identità. E nell’orrore, nella nausea, nella trance — trovare l’evento trasformativo.
La società si fonda sul sacrificio del capro espiatorio.
René Girard