Coloro che sognano di giorno sanno molte cose che sfuggono a chi sogna soltanto di notte.
— Edgar Allan Poe
Resurrection mette in scena un futuro che ha amputato la propria parte più creativa: il sogno. Per raggiungere l’eternità — una sopravvivenza senza fine, levigata, priva di scarti — gli esseri umani hanno sacrificato la loro facoltà di immaginare. Non esistono più visioni spontanee, più simboli notturni, più crepe da cui filtra l’inconscio. E chi ancora sogna viene isolato, etichettato come delirante: non un portatore di senso, ma un difetto del sistema, un errore biologico che rimanda all’antica vulnerabilità.
In questa cornice di anestesia collettiva, l’opera di Bi Gan diventa un’indagine sui territori che la coscienza cerca di espellere: il desiderio, la paura, la memoria che ritorna come un’eco non richiesta. La donna che attraversa la mente del giovane sognatore compie un itinerario che non è solo mentale, ma antropologico: ogni sogno è un archivio di epoche, ogni incarnazione del ragazzo è una variazione sul tema dell’identità smarrita. E in questi mondi frammentati si ripresenta una verità antica: più si teme qualcosa, più la si desidera. Il bisogno di controllo assoluto del futuro produce un’attrazione irresistibile verso l’imprevisto, verso ciò che sfugge alla logica immortale del sistema.
Bi Gan costruisce un film che dialoga continuamente con la storia del cinema: dalle iconografie del muto ( la parte più commovente e affascinante) ai giochi di luce espressionisti, dai piani-sequenza ipnotici alle geometrie del digitale. Ma non si limita a celebrare. Il film sembra chiedersi se l’immagine cinematografica, in un mondo dove nessuno sogna più, possa ancora sopravvivere o se sia destinata a sgretolarsi. Il sogno, infatti, è il combustibile del cinema: senza visioni interiori, senza immaginazione, cosa resta delle immagini in movimento?
Il film, allora, diventa un rito di resurrezione: le visioni del “delirante” riportano in vita un cinema che rischia di estinguersi. Ma questa rinascita è fragile, intermittente, piena di fratture. Ogni sequenza onirica sembra offrirci, insieme all’omaggio, anche la possibilità della catastrofe dell’immagine stessa. È come se Bi Gan interrogasse il futuro dell’arte e del vedere: può il cinema continuare a esistere quando la società non tollera più il sogno?
Il film si apre e si chiude con due momenti di pura, altissima forma cinematografica: immagini che sembrano scolpite nella percezione, precise, magnetiche, capaci di restituire allo spettatore la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di raro, di necessario.
Il centro della pellicola, invece, si dilata in percorsi più incerti, a volte labirintici: la narrazione si frantuma, le metafore si moltiplicano, la coerenza si sfilaccia. È una parte affascinante, ma più criptica e disomogenea, che richiede allo spettatore uno sguardo paziente. L’effetto complessivo è quello di un’opera che eccelle nei suoi estremi e si smarrisce volutamente nel mezzo, come se la perdita d’orientamento fosse parte del viaggio ma, al tempo stesso, penalizzasse la compattezza dell’insieme.
Tra gli episodi più rivelatori spicca quello del piccolo giocatore di carte, dove viene enunciata una frase destinata a risuonare: per ingannare gli altri bisogna prima ingannare se stessi.
È una chiave di lettura dell’intero film.
La donna deve convincersi di una verità per poterla comunicare al sognatore; il mondo immortale deve credere alla propria perfezione per poter condannare i sognatori; lo spettatore è chiamato a sospendere il proprio giudizio per lasciarsi attraversare dalle immagini. L’inganno non è solo un atto verso l’esterno, ma un processo interiore: una forma di auto-illusione che rende possibile l’esistenza stessa del mondo mostrato da Bi Gan.
Aristotele sosteneva che l’arte funziona solo se lo spettatore accetta volontariamente l’illusione.
Resurrection è un’opera che interroga il rapporto tra memoria, identità e immagini. Un film che celebra la potenza del sogno e, allo stesso tempo, mette in scena la sua cancellazione. Un viaggio filosofico dove l’eternità, senza immaginazione, diventa un deserto e dove il cinema — come il sogno — vive finché qualcuno è disposto a perdersi nelle sue visioni, anche a costo di ingannare un po’ sé stesso.
È preferibile il verosimile impossibile al possibile inverosimile.
Aristotele