I poveri fanno la guerra tra loro mentre i ricchi brindano al balcone.
— Eduardo Galeano
Che cos’è un gioco che non diverte più? Una liturgia. Che cos’è una liturgia che si ripete ininterrottamente, svuotata di ogni fede? Un potere.
Il potere è forte quando riesce a far dimenticare che esiste.”
— Pier Paolo Pasolini
Il gioco dell’eccesso trionfa la le riflessioni sulla catabasi dell’umanità.
La terza stagione di Squid Game non è una serie televisiva nel senso tradizionale, ma un compendio visivo e narrativo sull’eclissi dell’umano sotto la luce crudele dello spettacolo. Un documento terminale, oscuro e disturbante, su ciò che resta dell’umanità quando le viene tolta la possibilità di scegliere la propria fine.
La sofferenza dei poveri è la pornografia dell’élite.
— Chris Hedges
Gi-hun – o meglio, il 456 – ritorna nel Gioco, dopo aver fallito ogni tentativo di sabotarlo. Lo ritroviamo nella cassa, ma non è morto. È lì per osservare ciò che ha generato. “Ora osserva le conseguenze della tua piccola rivolta”, gli viene detto. Il tentativo di sovvertire l’ordine si è già risolto nella sua assimilazione. Il sistema ha metabolizzato anche la disobbedienza. L’esperimento è andato avanti: 35 corpi penzolano dalle corde mentre i VIP applaudono al ritmo del Valzer di Strauss.
I giochi non sono più solo prove di sopravvivenza, ma allegorie spietate: regole, sadismo e metafore democratiche.
La democrazia è il sistema che ci lascia scegliere chi ci taglierà la gola.
— George Bernard Shaw
Il nascondino diventa un labirinto simbolico in cui le chiavi (cerchio, triangolo, quadrato) rappresentano strumenti di uscita e di potere, mentre i coltelli sono mezzi di selezione sociale. Non uccidere significa essere eliminati: la solidarietà è vietata, e il Dividi et Impera non è destino ma soprattutto tattica.
Il secondo episodio introduce una fragile coalizione: una donna incinta, un’anziana, una guerriera trans. L’unione delle chiavi produce una via d’uscita, ma solo a prezzo di un sacrificio indicibile. Nasce la bambina, designata come “222”, come la madre che è costretta a scegliere chi vivrà.
Nel terzo episodio, la democrazia torna in scena sotto forma di parodia: una votazione per decidere se continuare a giocare o fermarsi. Ma il voto è una trappola logica: la posta in gioco è la vita, la morte o la miseria. La famosa scelta democratica è solo una simulazione di libertà, dove l’unica opzione reale è il mantenimento dell’ordine. “Decidere democraticamente: è puro sarcasmo! Il demos non esiste più: resta il dio denaro a presiedere i rituali.
I potenti non chiedono il tuo consenso. Ti fanno credere di averlo dato.
— Noam Chomsky
Il quinto gioco, una variazione sul salto della corda, trasforma i corpi in oggetti cinetici. Due bambole giganti girano la corda; chi cade, muore. Tutto è ritmo, ripetizione, eufemismo della crudeltà. I VIP assistono mascherati da animali dorati, si eccitano alla vista della guerra tra poveri, che per loro è il vero carburante dell’intrattenimento. L’orrore che esalta, l’ignavia che si auto-elimina. L’esperimento umano diventa snuff movie planetario.
Nel quarto episodio, il paradosso si fa lirico e osceno. La madre di 222, con una caviglia spezzata, si getta giù. La bambina partecipa al suo posto. I VIP, affascinati, commentano che “questa è più interessante della resurrezione di Gesù”. Ma il Gioco impone regole: non si può uccidere la bambina, le regole lo vietano. Il potere si auto-legittima proprio nel momento in cui impone la propria falsa neutralità travestita da norma.
I giocatori superstiti sono invitati a un banchetto in smoking. Mentre si consumano piatti raffinati, due verranno eliminati. Il montepremi è salito a cifre astronomiche, ma la verità è che il premio è fittizio: ciò che si gioca è l’identità stessa del soggetto, l’illusione di essere libero.
I più oppressi sono coloro che non si accorgono di esserlo.
— Antonio Gramsci
456, unico a intuire la struttura del meccanismo, potrebbe annientare gli altri. Il Front Man lo mette nelle condizioni di farlo, ma la sua coscienza lo frena. È l’ultimo residuo di una pietà stanca, più tragica e disillusa che morale. L’umanità si contorce tra la cattività capitalistica e l’incomprensione delle proprie catene.
Il Gioco finale: torri, simboli, abisso
Cerchio, triangolo, quadrato: l’ultimo gioco, il calamaro in aria. Tre torri. Una spinta. Si potrebbe decidere di stare insieme, ma l’individualismo vince ancora. Non è solo un comportamento: è un habitat. La miseria che regna non è economica ma ontologica. L’ignoranza non è un difetto, è una condizione imposta.
Nell’episodio conclusivo, Umani, 456 prova a spiegare il trucco. Ma i miserabili non capiscono. Non possono capire. Il Gioco è finito, forse. La serie coreana chiude. Altri franchise possono nascere, ma lo spirito si è dissolto. Quel che resta è una metafora definitiva di un mondo in cui la servitù è volontaria, l’orrore è sistemico, e la guerra tra poveri è la forma più pura di governo.
Nel teatro dell’assurdo capitalista Squid Game 3 non racconta più l’ingiustizia: la presume. Non costruisce tensione: la esaurisce. Non cerca di redimere: prende atto. È una macchina del tempo rovesciata, che ci riporta indietro nella nostra barbarie contemporanea. I poveri si massacrano in smoking, i padroni applaudono con calici di cristallo. La democrazia è un gioco truccato, e il libero arbitrio è un effetto speciale.
La rivoluzione è fallita. L’orrore vince sempre.
Il capitalismo è straordinario: convince gli schiavi che la catena sia libertà.
— Frédéric Lordon