Ogni volta che esiste un abisso tra ricchi e poveri, è perché qualcuno ha costruito un ponte solo per attraversarlo da una parte sola.
Arundhati Roy
La religione è ovunque, una scenografia distorta: un crocifisso decapitato, il Padre Nostro recitato mentre si assumono stupefacenti. Le strade sono piene di bambini stesi su cartoni. Le droghe — metanfetamina soprattutto — servono a resistere. Producono allucinazioni di paradisi fasulli: orchidee che si schiudono in mezzo ai rifiuti.
Il film registra, senza abbellimenti, la logica del mercato: tutto è vendibile. Sigarette, Viagra, Xanax, nani, bambini su catalogo, ragazze minorenni. Qualsiasi perversione trova un prezzo. E intorno si muovono i turisti, soprattutto uomini bianchi, americani o europei: compratori che fanno girare l’ingranaggio.
Nel frattempo un turista olandese, Michael, tradito da un’amica filippina conosciuta online, scivola nel mondo oscuro del quartiere a luci rosse. Quando le traiettorie si incrociano, l’abisso di povertà, desiderio, disperazione e mercificazione umana generano un tragico conflitto tra innocenza, colpa e sopravvivenza.
Il titolo — evocativo, carico di ironia — trasforma il “giardino” in una distopia morale, un parco visionario corrotto dalla brutalità del capitale e delle disuguaglianze globali: quei “frutti” e “delizie” non sono paradisi, ma merci. Knibbe non lascia scorci di bellezza consolatoria: ogni scena – dallo sballo di metanfetamina alla prostituzione, dal degrado urbano agli scambi sessuali con turisti occidentali — compone un mosaico disturbante di sfruttamento, abisso e perdita. In questo contesto, la povertà non è solo condizione di miseria, ma moneta di scambio per perversioni vendute e comprate con indifferenza.
La vicenda scivola nell’inferno più cupo: Liwa, una bambina, muore. Ginto finisce in carcere in un ammasso di corpi sovrapposti, ancora più ostile per i tossici e i gay. Asia sogna di andarsene, ha messo da parte i soldi ma servono duecentomila pesos per far uscire Ginto. Il sogno impossibile si infrange.
Ginto le chiede: “Quanto prendi a persona?”. Lei lo zittisce dicendogli di non farle mai più quella domanda. È la formula definitiva dell’economia dell’abuso.
Questo “giardino” è il frutto avvelenato di un capitalismo globale che ha trasformato il dolore, l’identità, la vita stessa in carne di consumo: per denaro, per godimento, per sopraffazione. Il contrasto tra il privilegio occidentale incarnato dalla maggior parte degli uomini bianchi e la miseria post-coloniale di Ginto e Asia, rende esplicita la radice strutturale dell’oppressione.
Il film affronta con cruda intensità temi come identità di genere e sessualità — il giovane Ginto, “etichettato” come effeminato, “finocchio” secondo gli epiteti di strada, cerca di sopravvivere in un mondo che lo vorrebbe solo corpo da sfruttare o carne da inglobare. Quando la sua esplorazione interiore — il bisogno di affetto, di riconoscimento, di verità, d’identità — entra in collisione con la domanda sistemica di corpi venduti e corpi usati, il conflitto diventa tragedia. Non si tratta solo di una singola esistenza insabbiata dalla miseria, ma di una condizione epocale: una marginalità globale che in silenzio sottrae bambini all’infanzia, all’identità, alla dignità e a un barlume di futuro.
È ingannevole ogni estetica liberatoria nel film: le droghe, le notti alcoliche, i locali, le fughe dall’orrore — tutto è effimero, tutto è illusorio. Le “visioni di paradiso” — le orchidee che sbocciano sul cemento, le fughe mentali — non sono innocue fantasie, ma disperate scorciatoie psicotiche contro un presente insostenibile.
Il film si chiude con un capovolgimento: il destino dell’olandese, arrivato a Manila in cerca di Sunny e del figlio, prende una direzione inattesa e brutale. La logica del mercato non risparmia nessuno, nemmeno chi crede di attraversarlo da osservatore esterno.
Come sostiene Knibbe stesso, il film non è voyeurismo né spettacolo fine a sé stesso: è un atto politico, una richiesta di coscienza che obbliga chi guarda a non restare impassibile. Il film scolpisce un sistema: povertà come merce, infanzia come risorsa, queer come bersaglio, desiderio occidentale come motore. Chi guarda — come chi consuma lo sfruttamento — ha una responsabilità: non basta vedere la miseria, occorre interrogarsi sulla propria complicità, sulla distanza tra la propria posizione di privilegio e l’abisso globale. In un mondo in cui “privilegio significa voltarsi dall’altra parte”, il silenzio è parte dell’oppressione.
L’umanità non si divide tra chi ha potere e chi non ne ha: si divide tra chi subisce il potere senza capirlo e chi lo esercita senza interrogarsi.
Michel Foucault
E proprio la bellezza — le immagini, la recitazione, la fotografia — da sole non bastano: diventano ingannevoli se non servono a smascherare il sistema che le produce.
Il film è potente, visivamente e narrativamente — fotografie di disperazione, squarci di violenza che colpiscono lo stomaco e la coscienza.
E tuttavia, c’è il rischio — evidente — di una rappresentazione che oscillando tra realismo e brutalismo sembri talvolta “effetto”: l’orrore dell’infanzia negata, della prostituzione infantile, della morte di una bambina — in un contesto di abuso multiplo — può risultare così estremo da diventare simbolo di un “inferno totale”. In tal modo, il personaggio di Ginto rischia di essere sublimato come “emblema della miseria”, piuttosto che rappresentare un soggetto complesso. La critica del quotidiano diventata tragedia universale — ma forse sacrificando sfumature di individualità, agency, resistenza.
The Garden of Earthly Delights è un film che inquieta. Comincia con una didascalia — “materiale impressionabile — sfruttamento sessuale” — e non fa sconti. È denuncia, specchio, bruciante testimonianza.
In un mondo in cui l’economia globale si nutre di povertà, in cui i corpi vulnerabili diventano merce — bambini, giovani donne, corpi queer — Knibbe ci offre uno specchio.
Perché questo Giardino non è eden: è inferno costruito dall’indifferenza.
Siamo responsabili di ciò che siamo — ma anche di ciò che lasciamo accadere.
Jean-Paul Sartre