The Mastermind

The Mastermind

Kelly Reichardt

Drama • 2025 • 1h 50m

Questo film è stato presentato a Cannes Film Festival

1970 Stati Uniti, J.B. Mooney, carpentiere disoccupato e padre di famiglia, orchestra un furto audace: rubare quattro dipinti di Arthur Dove da un museo locale. Ma il piano, presentato come brillante, si incrina presto e si trasforma in un dramma esistenziale e politico, che travolge la sua vita privata e mina le sue certezze.

Recensito da Beatrice 05. October 2025
La solitudine non è la mancanza di persone, ma la mancanza di significato.
Erich Fromm
 
Il museo in cui avviene il furto è situato nella città di Framingham, Massachusetts.
Lo spazio museale è concepito come un luogo pubblicamente accessibile ma distratto: corridoi poco sorvegliati, guardie disattente, vetrine non allarmate — condizioni che permettono a J.B. di sostare tra le sale, osservare le opere, studiare i movimenti dei visitatori e attendere il momento giusto per agire. 
Le opere rubate sono attribuite all’artista moderno americano Arthur Dove (pittore di astrattismo e paesaggi interiori). I titoli menzionati includono Willow Tree (1937), Yellow Blue Green Brown (1941), Tree Forms (1932) e Tanks & Snowbanks (1938). Questi quadri, sospesi tra astrazione e natura, diventano nel film simboli di una bellezza che Mooney vuole fare sua come pegno di un’esistenza nuova, forse…

L’evento narrativo è ispirato al reale furto del 1972 al Worcester Art Museum, dove furono trafugati due Gauguin, un Picasso e un’opera della bottega di Rembrandt, durante l’orario normale di apertura. Questo episodio storico agisce come un sostrato latente: suggerisce che, in certi momenti, l’ordine culturale può essere violato con mezzi apparentemente banali.
Ciò che rende il furto nel film surreale è il modo in cui esso si compie: non con sofisticate tecnologie, né con travestimenti complicati, ma con gesti elementari (maschere fatte con collant L’eggs, sacchi di tela, impalcature improvvisate) e con una leggerezza che sfiora l’ironia.

In un momento iniziale, J.B. si aggira nel museo in modo apparentemente innocente, osservando i quadri e progettando mentalmente il colpo. In un gesto quasi rituale, apre una vetrina, sottrae una piccola figurina, la nasconde in un astuccio per occhiali, la infiltra nella borsa di sua moglie — fatto che avviene davanti a un’ulteriore guardia distratta. Questo prologo mette in tensione l’ambivalenza fra normalità e trasgressione, tra il pubblico e il segreto.
La facilità con cui il gruppo esce con i quattro quadri — senza allarmi, senza occhi su di loro — crea un effetto straniante: non è un “colpo” hollywoodiano, ma qualcosa che somiglia all’ “invasione silenziosa” di uno spazio culturale. Reichardt gioca su questa dissonanza per mettere in luce quanto il sistema culturale, in certe epoche, fosse vulnerabile.

La famiglia Mooney è un microcosmo di tensioni latenti. J.B. è sposato con Terry, e hanno due figli gemelli, Carl e Tommy. Terry è mostrata come figura paziente, dedita alla casa, stretta in un legame di responsabilità domestica che spesso la isola dal progetto “sovversivo” del marito. I figli, curiosi e distratti, vagano tra corridoi del museo, fumetti in mano, occasionali interruzioni dell’azione del padre.
La madre di J.B., Sarah Mooney, ha contatti con il museo (attraverso il suo status sociale) e fornisce prestiti per agevolare l’operazione presunta del figlio che le racconta altro… Il padre, giudice Bill Mooney, è figura riflessiva: commenta con ironia che “non è convinto che quei dipinti astratti valessero tutta quella fatica”. 
Nel montaggio di Reichardt, siamo testimoni del doppio legame: J.B. deve mantenere la facciata di padre e marito, mentre nasconde un progetto che li allontana. La tensione esplode sotto il peso del senso di colpa e della disillusione.

Uno degli intermezzi più suggestivi del film è quella scena nel museo in cui una giovane donna — apparentemente una visitatrice /studentessa — declama in tono parlato una serie di “difetti” attribuiti a uomini e donne: superficialità, egoismo, vanità, incapacità di ascolto, fissazione dell’immagine. Questo elenco agisce da commento morale e sociale: quella voce (quasi un sussurro collettivo) ricorre come controcanto, un’eco che mette in discussione il valore delle relazioni umane, la maschera della virilità, le aspettative affettive.
La scena fa da pausa inquieta: lontano dal crimine tecnico, si apre un campo poetico dove il mondo dei sentimenti e dei limiti umani viene verbalizzato. In quel momento, il museo non è solo uno spazio di contemplazione, ma un foro dove si depositano giudizi sarcastici.

La musica nervosa e contrappuntuale di Rob Mazurek ha un ruolo costante e sottilmente invasivo nel film. Il suo score jazz — con tromba, percussioni e improvvisazioni — non accompagna, ma commenta: introduce una tensione sottile, scandisce il ritmo emotivo di J.B. e talvolta lo anticipa.
La partitura è articolata: nei momenti più tranquilli si appiattisce in uno sfondo discreto, ma nelle ore della pianificazione, del dubbio, della fuga si fa più nervosa, incalzante, come un battito che ruba spazio al silenzio.  Mazurek, insieme a Chad Taylor alla batteria e altri collaboratori, ha realizzato un tappeto sonoro che dialoga con l’estetica del ’70, fatto di tensioni analogiche, improvvisazione e malinconia. La sua musica, grande protagonista,  conferisce al film un “salto” emotivo: nei momenti in cui la macchina da presa indugia sul vuoto, Mazurek “inietta” una corrente nervosa, un contrasto produttivo.

Con l’aggiunta di questi elementi, la pellicola si arricchisce ulteriormente lavorando per sottrazione. Il museo e i quadri diventano simboli centrali del fallimento dell’appropriazione estetica: J.B. pensa di “prendere” la bellezza, ma la bellezza lo sgretola dall’interno. La famiglia è al contempo anello di salvezza e gabbia di responsabilità non riconosciute. Il dettaglio della ragazza che snocciola difetti funziona come riflessione meta-morale che riverbera sul protagonista e sul pubblico. Infine, la colonna sonora non è contorno, ma agente sonoro che plasma l’esperienza emotiva del film.

In The Mastermind, Kelly Reichardt mette in scena l’agonia di un’illusione con la calma ossessiva di un ingranaggio che scricchiola. Non è un thriller ad alto ritmo, bensì una discesa lenta nel groviglio dell’identità, della frustrazione e della dissoluzione dell’io. La rapina — paradossalmente pianificata come atto liberatorio — si rivela essere il catalizzatore dell’autodistruzione di J.B.

Il risultato è una riflessione politica ed esistenziale: in un’America in convulsione (proteste, guerra in Vietnam, crisi sociali), l’atto individuale (il furto) diventa un gesto disperato e al contempo confuso. J.B. non sfida l’ordine, bensì si consuma in un’interiorità che non sa abitare la contraddizione. Reichardt non da indicazioni: non forgia l’eroe, ma posa lo spettatore dentro lo spazio inquieto dell’uomo che credeva di cambiare il mondo, forse solo il suo, e invece viene consumato dalla propria dissonante eco.

Il fallimento è la lente di ingrandimento della vita.
(F. Caramagna)
 
 

Questo film era in concorso ufficiale di Cannes Film Festival

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