Together

Together

Michael Shanks

Horror • 2025 • 1h 42m

Millie e Tim stanno insieme da molti anni; lui musicista in stallo, lei insegnante, entrambi portatori di delusioni, di abitudini che hanno mangiato il gusto del vivere. Trasferirsi in campagna sembra la possibilità di ricominciare — ma ben presto, attraverso la scoperta di una grotta nascosta e l’acqua sulfurea che vi sgorga — il film introduce il perturbante: una intrusione fisica che rispecchia la fusione psichica e affettiva già in atto. I loro corpi non sono più confini stabili, ma territori condivisi, dolenti, deformati.

Recensito da Beatrice 23. September 2025
L’amore è la nostalgia per la metà di noi stessi che abbiamo perduto.
 — Milan Kundera
 
Together parte da una premessa semplice — la crisi di una coppia che ha smarrito sé stessa nell’altro — e la trasforma in un horror del corpo che prova a diventare riflessione esistenziale. Il mito platonico dell’androgino, con la sua idea di due metà inizialmente unite poi separate, è presente non come decorazione, ma come linfa sotterranea che guida l’intera mutazione dell’identità, dell’amare, del dolore.
 
La tensione narrativa cresce: prima lieve, nei gesti quotidiani (la proposta di matrimonio, le incomprensioni), poi centrifuga, nel body horror che non si limita all’effetto visivo ma cerca la materializzazione del trauma della coppia. Il terzo atto, però, evidenzia alcuni limiti nell’approfondimento simbolico: certe spiegazioni mitologiche e cultuali appaiono affrettate, quasi imposte per giustificare le metamorfosi più strane.
 
Il mito platonico dell’androgino — quello che in Simposio Platone racconta: l’essere umano originariamente doppio, diviso da Zeus, che da allora cerca la sua metà per completarsi — è evocato nel film tramite immagini concrete: la separazione, la ricerca, la fusione dolorosa. Ma Together non idealizza l’unione: non si tratta di un ricongiungimento paradisiaco, ma di una fusione lacerante, di confini che diventano prigioni, di identità che si sciolgono nell’altro in modo spesso disumano.
 
Il tentativo è di rimette in gioco l’idea romantica tanto cara al mito platonico: quella dell’anima gemella, della metà mancante invitando a guardarla non come consolazione, bensì come sfida.
 
Non siamo in presenza di un film horror su una coppia che si fonde fisicamente ma di  un esperimento esistenziale su cosa significa voler completare sé stessi nell’altro, e cosa succede quando quell’anelito non è simbolo di felicità, ma terreno fragile, spesso tormentato. 
È la domanda: che succede se la nostra “altra metà” non è un conforto, ma un riflesso distorto, un peso, un’ossessione?
 
In questo senso, il film diventa meditazione sull’esistenza: che cosa significa essere “noi” quando l’altro dentro di noi è anche il luogo dell’orrore? Il dolore diventa consustanziale all’amore perché amare comporta, spesso, perdere sé stessi. E questa perdita — nella metafora della mutazione corporea — diventa visibile, orrenda, ma necessaria per interrogarsi su che genere di relazione siamo disposti a tollerare, a nutrire, a sognare.
 
Eppure, se la premessa è suggestiva e le intenzioni dichiaratamente alte, il risultato resta contraddittorio. Shanks tenta di far convivere il registro del body horror con la commedia nera, il dramma di coppia con la riflessione, ma l’insieme non tiene. La sceneggiatura, che vorrebbe contenere tensione, simbolismo e introspezione, scivola spesso in facilonerie e scorciatoie narrative: i passaggi cruciali sono risolti in modo sommario, le spiegazioni mitologiche sembrano appiccicate più che interiorizzate, e il racconto procede per salti poco convincenti.
 
Le interpretazioni di Alison Brie e Dave Franco, pur generose, non riescono a compensare questi limiti: la stanchezza e il disincanto dei personaggi non si trasformano in vera profondità emotiva, ma restano in superficie, come segni recitati più che incarnati. L’alchimia tra i due, su cui il film avrebbe dovuto poggiare, risulta fiacca, e finisce per accentuare l’impressione che la loro vicenda sia meno tragica che caricaturale.
 
La trama, dal canto suo, alterna momenti di lenta preparazione a bruschi scarti verso il grottesco e il ridicolo involontario. Quella che dovrebbe essere un’ibridazione di generi si traduce in un continuo oscillare che confonde senza stimolare: si ha la sensazione che il film insegua un’ambizione “colta”, un desiderio di parlare con Platone e con l’horror di Cronenberg nello stesso respiro, ma il risultato rimane velleitario, più vicino al compiacimento estetico che a un reale lavoro di pensiero.
 
Anche le conclusioni non convincono: il tentativo di dare una forma teorica all’esperienza vissuta dai protagonisti si riduce a una chiusura sbrigativa, quasi imposta, che smonta l’impianto allegorico costruito fino a quel momento. Invece di lasciare allo spettatore un senso di inquietudine fertile, di interrogazione aperta, Together lascia il retrogusto di un esercizio incompiuto che sembra travestire da filosofia una dinamica narrativa che resta mainstream, addomesticata, persino accomodante.
 
Comunque, in ultima analisi, il film ci prova a compiere uno scopo importante: riflettere su identità e alterità, su libertà e dipendenza, su quanto dell’amore sia desiderio di unità e quanto timore di perdere sé stessi. Se Platone sognava l’unione come perfezione, Shanks mostra l’unione come prova: prova morale, prova fisica, prova filosofica. Ed è doloroso, spesso orripilante, ma necessario per capire dove sta il confine — se esiste — tra amare e diventare un’ombra dell’altro.
 
Sono quello che sono: un po’ quello che ero, non ancora quello che sarò, un frammento di quello che vorrei.
Fabrizio Caramagna
 
 

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