Il mito materno sotto esame: un’odissea pop-esistenziale a misura di dubbio
C’è una domanda che attraversa la storia dell’umanità più della grammatica e più delle religioni: che cos’è una madre? Leonardo Malaguti decide di affrontarla nel modo meno retorico possibile: affidandola all’ironia impertinente e spaesata di Dania, venticinquenne che studia cinema e che – almeno sullo schermo – scopre di essere incinta. Una gravidanza fittizia, certo, eppure sorprendentemente più vera di molte rappresentazioni stereotipate che il nostro immaginario partorisce da generazioni.
Il film non cerca mai l’enciclopedia: preferisce agitare il mito come una neve artificiale, per vedere che cosa resta in basso quando la polvere si posa. Quello che resta è un paesaggio inaspettatamente affollato: lo stigma verso chi non ha voluto figli, la retorica furbesca che attribuisce la denatalità alla libertà femminile (come se emanciparsi causasse un’emorragia demografica), la tensione tra diritto all’aborto e obiezione di coscienza, la fragilità di scelte che non possono essere ridotte a hashtag moralistici.
Malaguti costruisce un oggetto ibrido – metà fiction, metà documentario – che sfugge ai confini del genere come il tema che affronta. La finta gravidanza funziona come un MacGuffin esistenziale: mette in moto la macchina, destabilizza, permette a Dania (personaggio e persona insieme) di diventare mediatrice, testimone, catalizzatrice. Lo spettatore osserva come lei ascolta: senza pretesa di giudizio, con il gusto di chi scopre che le persone, una volta sganciate dalle categorie, si rivelano irriducibili.
La scelta di costruire un film-dispositivo, più cinematografico che documentaristico, non è solo formale: è una dichiarazione di metodo. Le interview non sono mai semplici frontali; diventano tableaux vivants, teatri statici, micro-paesaggi di luce vibrante in cui ogni storia prende forma come un piccolo universo. La Roma delle location – interni domestici, cortili nascosti, salotti pieni d’ombra – diventa il contracampo simbolico di un tema che vive tra intimità e politica, corpo e istituzione. Il mito della “mamma italiana”, con il suo carico di iconografie, viene smontato pezzo per pezzo con un montaggio che predilige salti, imprevisti, aperture surreali: un’estetica pop-filosofica, più vicina al dubbio che alla dottrina.
D’altronde il dramma della maternità non è il figlio, ma l’idea che gli altri hanno della madre e la madre è l’unico concetto che l’umanità ha trasformato in dovere senza mai chiedersi se fosse un desiderio.
C’è un’idea potente al centro dell’opera: non è la maternità a definire la donna, ma la donna a definire – ogni volta in modo diverso – che cosa significhi essere madre. E il cinema, qui, non è più un mero strumento di rappresentazione: diventa luogo di cura, di restituzione, un esercizio di dubbio che si offre come possibilità di pensiero.
Il risultato?
Tua Madre riesce a trattare un tema sacralizzato senza sacrilegio, un tema politico senza indulgere nella propaganda, un tema intimo senza pornografia emotiva. E soprattutto, farlo con un’ironia leggera, che non scava per ferire ma per far respirare.
La madre è il primo esserci-per-l’altro. Peccato che pochi si chiedano come sia il suo esserci-per-sé.
Nella sua raffinata semplicità, il film non risponde alla domanda “che cos’è una mamma?”. Per fortuna.
Ci dice però che ogni tentativo di definizione è già un atto di potere, e che forse l’unica risposta onesta è un coro di voci discordanti, tenute insieme da una giovane donna che cerca – con grazia e una punta di spensierata anarchia – di capire se la libertà passa attraverso lo scegliere, il rinunciare o il sospendere il giudizio.
In fondo, se il mito della mamma deve essere rivisto, tanto vale farlo con humour, pensiero critico e la certezza che nessuna immagine – per quanto venerata – è immune dall’esame della vita reale.
l tour nelle sale italiane dal 19 novembre – dal Cinema delle Province fino al Farnese e al Madison – non è solo un calendario di date, ma la prova che il film aspira a diventare incontro più che oggetto: Malaguti, Dania Rendano, Wilma Labate e la sceneggiatrice Margherita Arioli esplicitano la natura comunitaria del progetto, dove la condivisione è parte integrante del linguaggio. EXA, fondata nel 2024 a Napoli da Umberto Maria Angrisani e Giovanni Toni, è una casa di produzione con un focus sul cinema di finzione e il documentario d’autore: all’attivo, oltre a Tua Madre di Leonardo Malaguti, Sandiego di Dario Fusco co-prodotto con Mompracem e un contributo della Campania Film Commission. Ancora in fase di sviluppo, Idroscalo di Giovanni Soldi, co-prodotto con Mompracem.