La menzogna più comune è quella con cui mentiamo a noi stessi.
(F. Nietzsche)
L’Incipit a rallenty con lo schiaffo a Marielle e la musica di Beethoven Razumosky Quartets op.59 n.3, ricalca il magico inizio sempre a rallenty del film La Ligne di Ursula Meier dove una figlia dà un pericoloso schiaffo alla madre, accompagnato dall’RV 608 Nisi Dominus di Vivaldi.
La pellicola si muove su un fil rouge che è insieme satirico e dolorosamente reale, un’opera che mette in scena un esperimento esistenziale: cosa accadrebbe se un figlio potesse leggere nella mente dei propri genitori? La telepatia di Marielle non è soltanto un espediente fantascientifico, ma una metafora potente della sorveglianza interiore e non solo, del desiderio di autenticità e del prezzo – altissimo – della verità.
È il luogo in cui si generano sospetto, sfiducia, sradicamento dei confini della privacy, come se l’interiorità potesse essere violata da uno sguardo troppo vicino, troppo assoluto.
Ma la verità, una volta vista, non si cancella. Le bugie vengono smascherate, i ruoli familiari si sgretolano, e il potere della telepatia diventa allo stesso tempo un fardello e un’arma. In questo conflitto fatto di silenzi, risate nervose e rivelazioni, la famiglia deve confrontarsi con l’idea che la trasparenza totale possa essere tanto liberatoria quanto distruttiva.
Il film dialoga con un certo cinema del disagio morale, e soprattutto con quella tradizione alla Rubén Östlund, in cui i personaggi scoprono chi sono davvero solo quando la vita li spinge sull’orlo dell’inevitabile. Come in Forza maggiore, anche qui emergono la fragilità, il tradimento delle aspettative, il collasso dell’immagine di sé nel momento in cui non si può più scegliere, nel momento in cui il pericolo o l’impossibilità di mentire ci costringono al nostro volto più nudo.
Hambalek sembra suggerire che siamo sempre pronti a sfuggire a noi stessi, a disertare le nostre responsabilità, almeno finché nessuno ci guarda; e che solo il controllo altrui – la sorveglianza, il giudizio, l’altro che ci incastra nella realtà – ci costringe a vedere ciò che siamo davvero.
Al centro del film c’è Marielle, interpretata magicamente da Laeni Geiseler, presenza quasi metafisica, più domanda che risposta. La sua capacità di ascoltare e vedere non è frivola, ma un destino che la sovrasta: segreti, vergogne, desideri nascosti emergono come detriti dopo una tempesta.
In questo violento cortocircuito etico affiora una domanda radicale: siamo virtuosi solo quando qualcuno ci osserva? La nostra moralità è autentica o non è forse, come avrebbe suggerito Schopenhauer, pura “rappresentazione senza volontà”?
Lo sguardo dell’altro diventa una forma di costrizione che invoca coerenza. Ma quale coerenza conta davvero: quella di facciata o quella che ha a che fare con la nostra coscienza?
E, soprattutto, chi siamo quando nessuno ci guarda? E in che cosa ci trasformiamo quando qualcuno è in grado di leggerci fino in fondo?
Julia e Tobias, i genitori, sono protagonisti di un teatro dell’autoinganno. Julia è più complessa, meno prevedibile: tenta di vivere una forma di naturalezza, scabra, con tutte le conseguenze dolorose che la stessa comporta. Tobias, con la sua indole elementare e priva di vere complessità, scivola, quasi senza accorgersene, in una posizione di accettazione automatica e irriflessa.
E qui il film colpisce più forte: siamo più veri o più falsi quando siamo sotto controllo? La sorveglianza ci rende autentici o ci immobilizza?
Hambalek gioca con la commedia più nera e l’introspezione più profonda: e nelle scene paradossali, come quando i genitori parlano in francese per sfuggire al radar mentale della figlia, emerge la tensione tra ciò che appare e ciò che è.
Da qui una domanda sotterranea: cosa è più difficile? Essere naturali, sinceri, spontanei? O esercitare un autocontrollo costante?
E ancora: se togliessimo ogni filtro, saremmo in balia delle nostre pulsioni?
La sincerità assoluta è un luogo di libertà o un dispositivo di annientamento?
La scena più brutale arriva quando Marielle, limpida come un coltello, chiede alla madre: Vuoi la verità? per poi colpirla: Ho capito che non mi piaci per niente.
In quel momento il film smette di essere metafora e diventa ferita aperta: la verità non salva, non consola, non redime.
Musicalmente, i quartetti classici (Beethoven, Schubert) amplificano il conflitto tra forma e sostanza, tra armonia ideale e realtà dissonante. Gli ambienti contemporanei e l’estetica patinata suggeriscono una superficie troppo fragile per contenere la pressione della verità.
Il cuore del film, però, resta la sua domanda filosofica e esistenziale:
Che cosa accadrebbe se ci fosse concesso di penetrare i pensieri altrui, e in particolare quelli che ci riguardano?
Le persone desidererebbero davvero un mondo così? O preferirebbero tornare all’ipocrisia e alla menzogna come forma di sopravvivenza?
Perché la verità spaventa, la sincerità ferisce, e i segreti – per quanto odiosi – sono spesso dispositivi di sopravvivenza.
Siamo in grado di scegliere e sopportare la sincerità e la trasparenza?
Può condurci verso la libertà o verso la distruzione?
Forse verso un luogo dove nessuno di noi, se davvero visto fino in fondo, potrebbe resistere.
Uno spunto disturbante di inevitabile riflessione si insinua nelle pieghe irrisolte di ciascuno: uno schiaffo che lascia un segno psicosomatico.
Dentro di noi c’è qualcosa che non ha nome, ed è ciò che siamo.
(Josè Saramago)