Wild Nights, Tamed Beasts

Wild Nights, Tamed Beasts

Wang Tong

Thriller • 2025 • 2 hours

Questo film è stato presentato a Roma film fest

In una società in rapida mutazione, la notte si allunga e le bestie interiori sembrano attendere l’alba. La protagonista, Ye Xiaolin, ex assassina divenuta badante, entra in un ambiente dedicato agli anziani in apparente funzione di assistenza. Lì, sotto la maschera della cura, commette atti che scuotono l’equilibrio: ma quando incrocia il percorso di Ma Deyong, uno zootecnico segnato dalla solitudine, l’ordine delle cose si incrina. Parallelamente, il detective Zhou Ping indaga su una scia di misteriose morti. In questo intreccio, la vecchiaia, la violenza, la cura e la dignità si specchiano l’una nell’altra, in un dramma che va oltre il crimine e diventa meditazione sociale sul tempo che avanza e sulla fragilità dei legami. 

Recensito da Beatrice 25. October 2025
L’uomo è un animale che si abitua a tutto, anche alla propria prigione.
— Emil Cioran

Non è soltanto un thriller: è un pellegrinaggio nell’ombra che ciascuno porta dentro, e un invito a guardare l’anzianità come terreno di riflessione sul nostro essere-per-il-tempo. Con punte di tensione viscerale e pause quasi silenziose, il film interroga il concetto di “cura” in un’epoca in cui gli anziani — fisicamente decrescenti, socialmente spesso marginali — diventano il banco di prova del nostro umanesimo. 

Nel lavoro di Wang Tong, la declinazione del prendersi cura non è solo azione esterna, ma confronto con la mortalità. Ye Xiaolin si muove fra corridoi e stanze dove il tempo ha già consumato la forma; e nel suo ruolo ambivalente — artefice e potenziale redentrice — emerge la domanda: che cosa significa assistere l’altro?

La violenza commessa da Ye non è gratuita: è gesto estremo, sintomo di un disagio più profondo che parla della nostra incapacità di stare accanto agli ultimi, agli invisibili. Ma quando la bestia interiore si incrocia con la cura — rappresentata da Ma Deyong — si apre uno spazio di tensione in cui la redenzione, o almeno la riconoscenza, appare possibile senza mai risolversi completamente.

Il film tocca anche il tema demografico, della società che invecchia, e al contempo chiede: cosa succede a una cultura se non riesce a trattare con dignità chi ha perso vigore fisico e visibilità? Come si cura la memoria, e come si accetta che ogni singolo essere umano sia un ricettacolo di storia, fallimenti e silenzi? Wild Nights, Tamed Beasts ci fa sentire il peso dell’esistenza nel tempo: non solo il nostro tempo, ma quello altrui che spesso ignoriamo. 

L’eutanasia… è semplicemente la possibilità di morire con dignità, in un momento in cui la vita ne è ormai priva.
Marya Mannes

Esteticamente, il film alterna momenti di tensione claustrofobica a silenzi meditativi, come se la cinepresa volesse indugiare su ogni volto, ogni piega della pelle, ogni segno del tempo. In questi spazi sospesi, c’è una  bestia da domare, la paura di non essere più utili, la rabbia di essere dimenticati, la speranza di essere ancora amati. E così la notte selvaggia dentro Ye Xiaolin trova un contrappunto nell’umanità fragile di Ma Deyong, e noi spettatori restiamo a interrogare ciò che significa vivere, assistere, aspettare.

Nel linguaggio simbolico di Wild Nights, Tamed Beasts, il leone in gabbia è forse una figura di enorme potenza poetica ed etica.
Rappresenta innanzitutto l’energia vitale repressa, la forza primordiale che la società moderna — con le sue regole, i suoi istituti, le sue strutture di controllo — tenta costantemente di contenere. È la metafora della pulsione alla libertà imprigionata nelle convenzioni morali, ma anche della violenza trattenuta, che in Ye Xiaolin si manifesta come conflitto interiore fra istinto e compassione.

Sul piano esistenziale, il leone incarna la dignità umana costretta: quella degli anziani rinchiusi nelle case di cura, delle persone che vivono ai margini, di chi è stato domato — o “addomesticato” — dalla vita. La gabbia diventa quindi simbolo della condizione moderna dell’uomo, prigioniero delle proprie paure e dei propri ruoli sociali, incapace di esprimere la propria natura autentica senza violare le regole del vivere civile.

In altre parole, il leone in gabbia non è solo Ye Xiaolin — o gli anziani che assiste — ma l’intera umanità: selvaggia per natura, civilizzata per necessità, in perenne tensione fra desiderio e disciplina, fra libertà e sopravvivenza.

La gabbia in Wild Nights, Tamed Beasts può essere letta come metafora della vita stessa, intesa non come punizione, ma come limite ontologico: la condizione che ci tiene nel mondo, che ci dà forma e al tempo stesso ci trattiene.

La vita è una gabbia perché ci definisce e ci costringe.
Ci obbliga a confrontarci con la finitezza, con il tempo, con la necessità di adattarci. È la struttura che delimita il campo delle nostre possibilità, ma anche ciò che rende possibile ogni esperienza. Come il leone, siamo intrappolati in una forma, in un corpo, in un destino che non abbiamo scelto — eppure, dentro quella prigionia, c’è la nostra unica occasione di libertà: la consapevolezza.

In questa lettura, il film suggerisce che non si esce mai davvero dalla gabbia, ma si può imparare a osservarla con attenzione.
Ye Xiaolin, con la sua ambiguità morale, incarna proprio questo gesto: non tenta di fuggire, ma di capire se dentro la prigione della propria esistenza — fatta di colpa, memoria e desiderio — sia ancora possibile un atto autentico, umano, vivo.

Così la gabbia diventa anche una figura dell’essere, come direbbe Heidegger: non il carcere dell’uomo, ma la sua dimora inevitabile.

Dal modo in cui la cinepresa si trattiene su spazi interni lunghi, silenziosi, spesso con una luce fredda o artificiale; dal ritmo che alterna agiti improvvisi e lunghi momenti quasi statici; dal disegno visivo delle scenografie — tutti elementi che evocano più un’“esposizione” che una narrazione classica — il film pare proporsi non soltanto come racconto, ma come “esposizione” visiva e sonora di uno stato esistenziale.
Si potrebbe dire che lo spettatore percorre una galleria: le camere degli anziani, le gabbie dello zoo, l’edificio semiabbandonato,  gli spazi delle relazioni che si incrinano, sono quadri in movimento, composizioni in cui i corpi — quelli della badante, dello zootecnico, del leone — diventano “oggetti” in uno spazio che è al contempo domestico e espositivo.
In quest’ottica la gabbia di cui parlavamo non è solo metafora ma elemento fisico: la cinepresa quasi la contempla come un’installazione d’arte che ci interpella, ci fa guardare — guardare e sentire — l’inquietudine, l’attesa, il tempo che scivola.
Questo stile “installativo” rinforza il messaggio: non siamo semplici spettatori di un crimine o di uno scandalo sociale, ma testimoni di un sistema che sorveglia, contiene, modella la vita. E al tempo stesso ci invita a percepire il visivo come spazio di riflessione — come l’arte che non “racconta” ma “presenta” un’esperienza.

La colonna sonora firmata da Ding Ke contribuisce profondamente a questo effetto: non si limita a “accompagnare” l’azione, ma amplifica la tensione silente, la presenza delle assenze, la precarietà dei momenti. Ogni nota sembra sospesa, ogni silenzio misurato come una pausa di respiro nei corridoi della mente e del tempo.
La musica, meravigliosamente disturbante, funziona come un tessuto che unisce scena e metafora e li rende tutti parte di uno spazio sonoro in cui il selvaggio è trattenuto, l’umano è esposto, il tempo è spazio.
E così, quando il film assume l’aspetto di installazione, la colonna sonora diventa un elemento “ambientale”: non solo colonna, ma campo acustico in cui il visivo e l’uditivo si fondono in un’esperienza unica e contemplativa ma soprattutto immersiva.

Non è la morte a farci paura, ma la possibilità che ci trovi ancora vivi quando non lo siamo più.
— Marguerite Yourcenar

Questo film era in concorso ufficiale di Roma film fest

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