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Wo men yi qi yao tai yang

Viva La Vida

Han Yan

Drama • 2024 • 2h 10m

Questo film è stato presentato a Settimana del Cinema Cinese in Italia

Wo men yi qi yao tai yang

Lin Min registra un messaggio. Si offre in dono a un morente: non solo come moglie, ma come custode dei suoi affetti superstiti. In cambio: un rene. 

Recensito da Beatrice 27. June 2025
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Essere vicini non significa capire. Significa non andarsene.
— Emmanuel Lévinas


Nella città di Changsha, il corpo di una giovane donna si fa trincea, archivio, ostaggio. Lin Min ha venticinque anni meno qualche giorno, e da tempo vive secondo le regole inflessibili di una malattia che non concede tregua: l’uremia, un’erosione silenziosa che impone un controllo costante, rituale, quasi ascetico, su ogni elemento ingerito, ogni goccia, ogni grammo. La sua esistenza si organizza attorno a centri ospedalieri, come un sistema solare costruito attorno all’eventualità – remota, quasi mitologica – di un trapianto. Otto, nove anni d’attesa: un’eternità compressa in un calendario settimanale di dialisi e misure di contenimento. Da due anni Lin Min è iscritta in due liste per il trapianto, in due ospedali diversi. Sul corpo porta i segni della sua condizione: Hirudoid sulle braccia, segni di aghi e prelievi ripetuti – 700, forse, come i goal di Messi, cifra-simbolo che il suo ex fidanzato aveva scelto come promessa di matrimonio. Ma quando quel traguardo è stato raggiunto, lui è semplicemente scomparso.

Poi accade qualcosa. Nella notte, in un momento in cui la vergogna ancora non ha voce, Lin Min registra un messaggio. Si offre in dono a un morente: non solo come moglie, ma come custode dei suoi affetti superstiti. In cambio: un rene. La biologia e l’etica si sfiorano in un’oscura negoziazione. Ma il messaggio, una volta partito, trova occhi. Quelli di Luu Tu, giovane creatura errante, segnato da un glioblastoma – un rumore cerebrale che incombe su ogni gesto – e da un’insistenza affettiva che, a tratti, lambisce il confine del tollerabile. È buffo, imprevedibile, travolgente. Se la pressione intracranica sale, sviene. Fa il videografo ai matrimoni, racconta storie deliranti, e quando incontra Lin Min qualcosa si attiva. Inizia a seguirla ovunque, diventando una sorta di incubo divertente. Tra loro inizia una valutazione clinica – fasi per determinare la compatibilità – ma anche una danza disordinata, una coabitazione tra due corpi esausti e pieni di forza.

Il regista Han Yan non si sottrae all’ambiguità morale dell’intreccio, anzi la espone frontalmente. Il suo film è cosciente di poggiare su un’impalcatura instabile, eppure non cerca di stabilizzarla con la retorica. Al contrario, ne mostra le crepe e ne interroga la tenuta. La legge, con la sua funzione regolativa, compare come spettro necessario: non è possibile barattare gli organi come si scambiano promesse d’amore. E tuttavia, ciò che il film cerca non è tanto la verosimiglianza quanto l’eco di un’esigenza reale, irrappresentabile, umanissima.

Il rapporto tra i due protagonisti evolve attraverso gesti sbilenchi, ineguali, mai neutri. Quando Luu Tu non solo aiuta Lin Min a traslocare, ma si fa interamente carico del trasloco stesso, il film deraglia volontariamente: ciò che era una trattativa clinica diventa un abbozzo di intimità. Luu Tu si rivela estremamente sensibile, capace di empatia pur nelle sue eccentricità. E la madre di Luu Tu, figura folle e spassosa, aggiunge un elemento surreale alla loro alleanza fragile, grottesca eppure sincera. Insieme diventano compagni di malattia, e in una scena memorabile – la conversazione walky-Tolkien – le parole si fanno incredibilmente leggere, strazianti, assurde. Uniche.

Ma non si tratta di un romanticismo canonico: è una costruzione accidentata, priva di grammatica riconoscibile, che somiglia più a una coabitazione dei dolori che a un incontro di anime. Luu Tu le propone infine il matrimonio per “continuare a vivere in lei”, come se il corpo dell’altro potesse diventare una forma di permanenza, una soluzione estrema all’impermanenza.

Il linguaggio visivo e narrativo di Han Yan non cerca la sottigliezza. A volte picchia duro, come nella scena dove un bambino ripete in inglese che vive in una “città perfetta”, mentre Lin Min affronta lo sfratto e l’umiliazione della precarietà. È una regia che usa l’ironia come scudo e l’empatia come trappola. Eppure, in mezzo a tutto questo, emerge una strana, dissonante leggerezza: la dinamica tra Lin Min e Luu Tu sfiora i territori della commedia romantica, ma come se ne rivelasse l’ossatura tragica, come se ogni sorriso fosse guadagnato al prezzo di un cedimento interiore.

A sostenere questa fragile impalcatura c’è Li Gengxi, che abita il personaggio senza volerlo “interpretare”. Il suo volto, spesso lasciato nudo, attraversa la fatica del vivere senza filtri, e riesce a incarnare una ragazza comune – nonostante tutto, attraverso tutto. È una presenza sottratta, che comunica soprattutto nei vuoti, nei silenzi, negli sguardi. Accanto a lei, Peng Yuchang offre un contrappunto stralunato ma mai caricaturale: la sua eccentricità non è follia, ma una strategia di sopravvivenza, un modo di contrattare con l’idea stessa della fine.

Il film si chiude su immagini reali – i volti dei veri Lin Min e Luu Tu – e questo ritorno al reale ha l’effetto di un cortocircuito. La finzione, con tutte le sue ellissi e le sue esasperazioni, aveva già detto di più. Eppure, quel frammento documentario serve a ricordarci che questa storia, per quanto sbilenca, nasce da un’urgenza vera, che non cerca giustificazioni. Solo ascolto.

 

In certi legami, non ci si salva. Ma si resiste insieme.
— Christian Bobin

 

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