Il corpo malato non è mai solo il corpo di uno, ma il corpo del mondo intero.
— Maurice Merleau-Ponty
Fin da bambina, Alpha giocava a unire con un pennarello i fori lasciati dai buchi dello zio tossicodipendente, trasformando la sua carne segnata in una sorta di gioco enigmistico. Questo gesto infantile, che rivela insieme innocenza e crudeltà, diventa chiave di lettura per tutto il film: i corpi sono superfici da decifrare, linee da collegare, mappe di dolore, custodia di tracce nascoste.
Il virus di Ducournau non è mai solo malattia clinica: i contagiati si trasformano lentamente in statue di marmo, assumono un aspetto spettrale, emettono polvere dalla bocca come se il respiro stesso fosse in disfacimento. La pelle passa dal colore vivo al bianco e nero, fino a una pietrificazione scura, quasi lavica, che richiama l’immobilità delle rovine. Cronenberg è l’eco più evidente: aghi, ferite, corpi contaminati sono mostrati senza filtri, come in una danza di dissoluzione. La marmorizzazione è insieme immagine estetica e condanna: i corpi si fanno monumenti al dolore, reliquie della vita che diviene nella staticità finale.
La dimensione familiare amplifica questa tensione. La madre di Alpha, medico, è incarnazione della scienza che non arretra: tenta di salvare la figlia, il fratello Amin, i pazienti, senza misura e senza tregua. L’altra madre, nonna, evocata nel film – legata a strumenti culturali ancestrali, a riti di guarigione primordiali – rappresenta invece il ritorno alle origini, il tentativo di custodire la vita attraverso gesti arcaici. Tra le due figure si apre un conflitto che non è solo personale: scienza e tradizione, cura medica e ritualità, due modi di affrontare la stessa angoscia, la stessa colpa.
Amin, lo zio, è una presenza centrale: una capsula impazzita, corpo attraversato dall’eroina, figura della fuga dalla vita. In lui la tossicodipendenza si intreccia con la minaccia del virus, con la volontà di abbandono, con il desiderio di sottrarsi al peso insostenibile dell’esistere. La sua deriva non è pura autolesione, ma una forma estrema di rifiuto della realtà: una lenta diserzione dal mondo.
Il film non si limita a evocare l’epoca del contagio, con i suoi test incerti e l’attesa angosciosa di due settimane per il responso. Al centro vi è una riflessione più radicale: la trasmissione del virus si affianca alla trasmissione del trauma. Le malattie, come i segreti familiari, circolano nel sangue, negli affetti, nei gesti ripetuti. Non esiste corpo che non sia attraversato dall’altro, contaminato da una genealogia di ferite.
Alpha affronta così questioni che vanno oltre la cronaca: l’AIDS, l’omofobia, lo stigma sociale, la discriminazione. Ma anche la libertà di fronte alla morte – eutanasia, suicidio, la possibilità di scegliere quando smettere di vivere. Ducournau lascia che lo spettatore si misuri con il tormento della musica, con la pietrificazione progressiva dei corpi, con la polvere che si fa respiro, con la sabbia rossa che ritorna simbolo di un’origine e di una fine.
È un film che indaga: la volontà di vivere, l’incapacità di farlo, il desiderio di abbandonare la scena. Tra corpi che si dissolvono e legami che si spezzano, Alpha diventa riflessione sull’ostinazione della scienza a salvare, sull’impossibilità di trattenere chi sceglie di andare, sull’ambivalenza del dolore come destino condiviso. Un cinema che non cerca empatia facile, ma che restituisce la crudezza della condizione umana: il corpo come luogo di verità, la malattia come specchio dell’essere, la morte come orizzonte che non smette di parlare, di inquietare e perché no, di rassicurare.
Esistere è un eccesso che non possiamo giustificare.
— Emil Cioran