Probabilmente la crudeltà umana è fissa ed eterna. Solo gli stili cambiano.
Martin Amis
In una periferia avvolta da cemento e silenzi sospesi, si dipana la vicenda di Fortuna, un incubo visionario filtrato mediante lo sguardo onirico dell’infanzia tradita. Attraverso un’architettura brutalista e perturbante la camera abbraccia l’oscurità con plasticità metafisica; ogni inquadratura è un monolite, ogni cambio di formato cinematografico (dal quadrato angusto al rettangolo evocativo) un frammento spezzato del vissuto della protagonista.
La bambina – un tempo chiamata Nancy, ora autodefinita Fortuna – erge un regno immaginifico contro l’orrore concreto: una favola nera che diviene estetica del dolore. In questa materia visiva, l’orrore non si mostra, ma si insinua come un’ombra corrotta, amplificata proprio dal non detto e dal fuori campo.
A queste figure spettrali, sospese in una dimensione altra, si contrappongono sequenze che aprono spiragli di fantasia, universi immaginari in cui Fortuna si rifugia per non soccombere all’orrore. Ma anche tali visioni, se osservate con attenzione, non restituiscono mai una via di fuga pura: esse convergono sempre in una distorsione della realtà, come se l’occhio infantile non potesse più coglierla per ciò che è, troppo insostenibile nella sua nudità.
Il film assume la forma di un’allegoria spezzata: realtà e allucinazione convivono, in uno spazio dove il sogno rinvigorisce la memoria mutilata. La struttura duale – in due atti, con geometrie visive spaccate – disarticola il visibile per stimolare l’immaginazione, affidando all’assenza una forza narrativa più potente.
C’è nell’opera la tragicità di un’infanzia svenduta alla brutalità del mondo adulto, e la cinematografia diventa metafora visiva di quel tradimento. Il palazzo, eretto come una nucleare torre di solitudine, simboleggia un universo arreso, dove lo smarrimento trova rifugio solo nel vuoto.
La regia si muove sul filo dell’indicibile: il mostro non viene mostrato, ma incombe, insinuandosi nella mente dello spettatore grazie a un uso sapiente del fuori campo. È un orrore nascosto che si radica nell’estetica, trasformando il dolore in visione.
La vicenda, ispirata al tragico caso reale di Fortuna Loffredo, deceduta dopo abusi e inganno in un baratro di omertà, trasfigura il trauma in sogno, generando una poetica che è catharsis e vendetta metaforica. La regia rubrica un riscatto nell’onirico, restituendo dignità e immortalità alla piccola eroina.
Al centro, la performance della bambina e l’alternanza della madre protettrice e della psicologa “distratta” diventano archetipi di sentimenti ambivalenti, riflessi in uno specchio frammentato.
Il percorso visivo, sulla soglia tra fiaba e incubo, si posa su un territorio in cui il cinema agisce come rito di redenzione: restituisce alla protagonista lo spazio interiore negato, la conduce su una stella inventata, sovrana di un pianeta immaginario, condannando il tradimento all’oblio e lasciando allo sguardo dello spettatore la scintilla di una speranza sopravvissuta.
La visione del mondo filtrata dallo sguardo della bambina non è mai lineare, ma si presenta come un prisma spezzato, deformato, irrimediabilmente corrotto. La sua percezione si contorce, si deforma, perché a essere stato distorto è innanzitutto il suo corpo, la sua innocenza violata, il suo diritto elementare alla fiducia e alla vita. Il film ne registra la frattura interiore, facendola emergere in immagini che oscillano fra il fantasmatico e il metafisico, tra scenari che non appartengono alla realtà tangibile ma a una proiezione interiore che diviene strumento di sopravvivenza.
È un reale obliquo, filtrato dal sogno e dal trauma, dove l’immaginazione non libera davvero ma trasfigura, offrendo solo una maschera fragile a ciò che resta indicibile.
In questa dialettica di percezioni, il terrazzo diviene il cuore simbolico del film: uno spazio sospeso tra il cielo e il baratro, luogo ambiguo che racchiude in sé il gioco e la prevaricazione, la violenza e l’evasione, il sogno e il pericolo, l’incontro e lo scontro. È su quella superficie esposta, proiettata verso l’esterno e al tempo stesso claustrofobica, che si consuma l’incubo esistenziale della protagonista. Il terrazzo non è solo un luogo fisico, ma un crocevia ontologico, un varco in cui la leggerezza infantile del correre e del ridere si capovolge nella vertigine della caduta e nella brutalità del sopruso.
Dentro questo spazio sospeso, emerge la figura della bambina dai capelli bianchi, epifania perturbante e metaforica, simbolo di un’innocenza che non trova più radici e che diventa emblema dell’omertà collettiva. La sua presenza spettrale è il segno visibile di una rimozione tatuata sulla pelle dei bambini, una memoria traumatica che la comunità adulta cerca di occultare ma che ritorna, insistente, nella forma di un corpo fragile e di un’immagine che non può più essere cancellata. In lei si concentra l’eco del silenzio, della trasparenza invisibile afona e ipovedente.
Il più grande male è quello commesso da nessuno, da esseri umani che si rifiutano di essere persone.
Hannah Arendt