Nell’intimo cuore, nel segreto più segreto della felicità, abita l’angoscia, che è disperazione: questo è il luogo più caro alla disperazione, quello che preferisce fra tutti: profondamente dentro alla felicità.
Søren Kierkegaard
Con La Gioia, Gelormini si misura ancora una volta con la soglia instabile fra cronaca e metafora, tra il dato reale e la sua trasfigurazione allegorica. Il titolo, ironicamente paradossale, non convoca alcun sentimento di pienezza ma, al contrario, segnala la condizione di una mancanza radicale, una sospensione che corrode dall’interno e che non conosce rimedio. L’eco del fatto di cronaca che sorregge la vicenda agisce come un peso ineludibile: il tentativo di introdurre frammenti di sarcasmo, invece che alleggerire, non fa che approfondire la tonalità del racconto, come se l’ironia stessa, anziché liberare, si trasformasse in un ulteriore strato di oscurità.
Il film si apre con uno stile sorrentiniano, capace di evocare sin dall’inizio la tensione fra ironia e tragedia. Gioia appare come figura sospesa: tifosa della Juventus, squadra vincente in una vita perdente, incarna la logica del fine che giustifica i mezzi, del godimento che prevale sulla conquista. Lei che, come categoria autoprotetta, ha barattato la libertà per la sicurezza — direbbe Freud — ora si espone, temeraria, spregiudicata, fragile. La sua traiettoria è quella di chi fugge e al tempo stesso cattura la gioia, ma sempre con il rischio di dissolverla.
Alessio, scolaro distratto, durante una lezione su Kierkegaard risponde alla domanda sull’angoscia con un inconsapevole “ma quale angoscia, io sto benissimo”. In questa battuta, apparentemente leggera, si rivela l’abisso del suo essere. Nessuna fede nel paradosso, nessuna consapevolezza dello scandalo esistenziale: per lui esistono solo possesso e denaro, il godimento come unica legge. Laddove Kierkegaard inscrive l’angoscia nella possibilità, Alessio la riduce a insignificanza: un sintomo dell’epoca che rifiuta il limite e si consegna al bulimico consumo dell’istante.
Emblematica, in questa prospettiva, è la domanda che Gioia rivolge ad Alessio: “Cosa metti dentro al niente per farlo diventare qualcosa?”. Non è soltanto un interrogativo esistenziale, ma una confessione implicita. Gioia, pur essendo donna di lettere, resta priva di esperienza, incapace di incarnare nella vita ciò che maneggia attraverso le parole; Alessio, figlio di un’epoca regolata solo dal godimento immediato, priva di desiderio e di legge, incarna un narcisismo vuoto, senza empatia, incapace d’amore. Entrambi sono figure del “niente” che tentano invano di generare un “qualcosa”, specchiandosi l’uno nell’altra in un gioco di annullamento reciproco.
Il film concede a entrambi momenti di tenerezza e di vulnerabilità estrema, rivelando un’umanità “troppo umana” che si configura come un luogo dismesso, abbandonato a sè stesso. Ma si tratta sempre di una fragilità egoistica, segnata da un godimento acefalo, senza desiderio equilibrante, incapace di limitarsi e dunque destinato a straripare nell’orrore umano più terrificante. In questa dinamica, la canzone che recita Dreams are my reality emerge come metafora: non fuga, ma trattenimento dell’insostenibile, perdita del contatto con la realtà quando la pulsione si sgancia dal desiderio e si fa scarica cieca, autonoma, tossica.
Gioia, figura neutra mai realmente vista da nessuno, viene vista forse per la prima volta e Alessio, forse per la prima volta accolto, non regge lo sguardo e fugge. Perché lo sguardo è l’unica possibilità di esistenza, ma nessuno sopporta di essere visto davvero se prima non ha imparato a vedersi. Da qui la fuga: Gioia dalla prudenza e dal principio di realtà, Alessio dalla possibilità stessa di essere riconosciuto come mancante, mai amato, usato, esanime. Il film ritrae corpi storti, interrotti, spregiudicati, immersi in un vuoto ontologico che diventa regno degli egoismi e del godimento senza legge.
L’uno e l’altra segnati dall’assenza paterna. Per Gioia il padre è divorato dall’Alzheimer, presenza cancellata dalla malattia; per Alessio l’infanzia è segnata dall’assenza originaria. Per entrambi tuttavia due madri, al contrario, eccessivamente invadenti, a loro modo, in misura patologica.
Gelormini, con il suo stile, ormai ben identificabile, lascia come sempre le pruderie fuori campo, guidando interpretazioni perfette e accompagnando il tutto con una sceneggiatura calibrata, una scenografia ineccepibile, un’architettura nichilista e una colonna sonora invadente. Ma questi elementi non fungono da semplice supporto narrativo: si dispiegano come forze autonome che definiscono l’esperienza stessa dello spettatore. La musica non decora ma invade, imponendosi come un corpo estraneo che irrompe e sovrasta; l’architettura, privata di funzione, diventa immagine tangibile del nichilismo che divora i personaggi; la scrittura, precisa e implacabile, orchestra la caduta senza concessioni, senza aperture consolatorie.
La collocazione intermedia e finale al Lingotto di Torino — ex fabbrica FIAT, tempio dismesso dell’industrializzazione — non ha un valore meramente scenografico. È una chiave di lettura. Quella architettura monumentale, svuotata della propria funzione originaria, diventa specchio dell’interiorità dei protagonisti: un corpo titanico e silenzioso che custodisce solo la propria assenza. Gelormini inserisce così il dramma individuale in una cornice universale, dove il vuoto non è eccezione ma condizione ontologica del presente.
Il film, con sorprendente lucidità, ritrae senza giudizio questo vuoto incosciente che attraversa tutti i personaggi: un vuoto incapace di intendere e di volere, una condizione che li rende vittime dell’egoismo e del godimento compulsivo, impossibilitati a costruire un’identità, estranei al processo stesso di soggettivazione.
Un film che sarebbe piaciuto a Jacques Lacan: rappresentazione di un micro/macrocosmo del godimento, dove la ricerca della soddisfazione immediata e la scarica pulsionale si oppongono alla logica del desiderio e al linguaggio, segnalando l’eccesso contemporaneo che ignora la legge e il limite. Tutti i protagonisti sono affetti da questa possibilità impossibile, che rende inconciliabile la costruzione dell’identità e l’avvio di un processo di soggettivazione. Dreams are my reality allora diventa la metafora stessa della perdita di contatto con la realtà, quando la pulsione si autonomizza, prevarica il desiderio come incontro con l’altro e trasforma ogni relazione in mezzo, in strumento, in fine giustificato a priori. Qui non c’è mai incontro: l’altro è sempre oggetto d’uso, veicolo per la scarica pulsionale.
È in questa combinazione di sarcasmo che accentua, di spazi che risuonano come tombe del desiderio e di corpi che non sanno più abitarsi che si colloca la cifra autoriale di Gelormini: un cinema che rifiuta la catarsi, che lascia lo spettatore immerso nello stesso vuoto esistenziale che condanna i protagonisti, trasformando il buio della sala in un’estensione della loro stessa assenza.
Com’è abituale nell’evoluzione concreta delle cose, colui che ha trionfato e conquistato il godimento diviene completamente idiota, incapace d’altro che godere, mentre colui che ne è stato privato conserva la sua umanità…
La soddisfazione del bisogno appare come l’illusione in cui la domanda d’amore va a schiantarsi
Jacques Lacan