Forse ci sono persone capaci di vivere senza simili preoccupazioni. Ma per quelli come noi, il destino è affrontare il mondo come orfani, inseguendo per anni le ombre di genitori scomparsi.
— Kazuo Ishiguro
Hiedra si presenta come uno specchio di traumi, desideri e assenze: un’opera che rifiuta polizze narrative rassicuranti e invece si insinua nelle pieghe della psiche, lì dove l’identità e la relazione si intrecciano come l’edera è solita fare su muri antichi.
Al centro del racconto c’è Azucena, una ragazza di circa trent’anni segnata da un trauma adolescenziale che l’ha costretta ad abbandonare ciò che poteva essere — un figlio, una vita diversa — vaga alla ricerca di qualcosa che le sfugge. La sua attenzione si posa su un gruppo di ragazzi che vivono in un istituto, tutti orfani, prossimi a dover lasciare quel rifugio temporaneo. Tra loro, Julio, un diciassettenne con un volto potentissimo che, nel suo agire con i più piccoli, sembra possedere un istinto materno, quasi una vocazione innata. Si prende cura dei neonati con dedizione, si informa sul ritorno delle madri, come se il suo gesto fosse un modo per scongiurare che altri subiscano lo stesso destino che ha marchiato la sua vita.
Gradualmente, la distanza sociale, le barriere del tempo e delle ferite si piegano, e la relazione tra Azucena e Julio assume i contorni di una possibile riconnessione — reale o immaginata. Ma “riconnettere” non significa ricostruire come prima: il film non suggerisce un ripristino nostalgico, bensì un’annodatura nuova, fragile, instabile, necessaria. Loro si avvicinano, si sfiorano, intuendosi l’uno nell’altro come specchi deformati, e non sappiamo mai se quel che li unisce (o che desiderano unirli) è reale o simbolico.
La cifra stilistica di Hiedra è la scelta di uno sguardo che è pelle: la macchina da presa insiste su close-up, gesti minimi, palpiti della corporeità, respiro, texture della carne. Attraverso queste micropercezioni, Barragán sospende il tempo: ogni fotogramma sembra trattenere un istante che non può essere collocato nettamente nel passato né nel presente. È in quella sospensione che abita l’orizzonte delle esistenze: tutto ciò che è stato perduto permane come potenza, e tutto ciò che è desiderato è già qui, in germe, anche se non ancora formulato.
Nel dichiarato intento autoriale, Barragán afferma che cerca “un desiderio disordinato, irrisolto” e che è attirata dall’ambiguità che scorre sotto la superficie della storia. E questo atteggiamento percorre il film: non c’è mai certezza, ma sempre una certa velatura, una sostanziale sospensione.
Il tema mette in tensione alcune polarità essenziali: l’assenza e la presenza, il corpo e il vuoto, il gesto e il silenzio. Azucena è una “creatura senza territorio, una ragazza congelata nel tempo” che agisce per istinto, per fame di vicinanza. Julio vive l’assenza della madre come ferita e assume nei confronti dei più piccoli un ruolo paterno e materno insieme, come se costruisse per loro un luogo di accoglienza che lui stesso non ha mai avuto. In questa dinamica, il film diventa riflessione sociale sulla condizione dei bambini senza famiglia: corpi sospesi in una terra di nessuno, dove la comunità diventa fragile sostituto della radice perduta.
Il paesaggio — in particolare la sequenza verso il vulcano — acquista un valore mitico: è luogo liminare, orizzonte che separa e congiunge, altare dove i personaggi possono collidere con le proprie ferite e radici. In quel regno primordiale, ogni confine si dissolve, e ciò che è stato rotto può essere riallacciato, ma non come prima: in una nuova forma, surreale, incerta, fragile.
Tra i punti di forza s’impone la direzione degli attori: Barragán guida le espressioni — anche quelle che sembrano involontarie — con mano vigile, riuscendo a comunicare, attraverso sguardi eloquenti di attori non professionisti, una comunità di corpi come luoghi di verità. La compresenza della vulnerabilità e del magnetismo di Azucena, dona figura e materia al vuoto emozionale che la protagonista abita.
Persino gli aspetti che potrebbero apparire come “limiti” diventano qui risorse poetiche: il ritmo discontinuo non è debolezza ma respiro, increspatura vitale che rispecchia il moto frammentato della memoria e del desiderio; la trama che si affievolisce nella prima parte è occasione per abitare l’indistinto, per permettere allo spettatore di sostare nel non detto; l’ultima svolta fantastica non è fuga ma apertura radicale, possibilità di pensare l’esistenza al di là della verosimiglianza. Persino lo squilibrio tra i due protagonisti, con Julio più opaco e Azucena più intensa, diventa metafora della sproporzione che governa i legami umani: non parità aritmetica, ma asimmetria generativa.
Hiedra invita a meditare su cosa significhi “ritorno” e se davvero si possa ritornare. È un’opera che suggerisce che non ci sia un “prima” da recuperare, ma piuttosto un “altro da sé” — imperfetto, instabile — verso cui avanzare. Lì dove la razionalità teme l’ambiguità, il film vive nel margine e nell’ombra, suggerendo che la vita stessa è tessitura di legami incerti: mai sicuri, forse ancora possibili.
In definitiva, è un’esperienza che chiede al pubblico attenzione e disponibilità offrendo uno sguardo su realtà marginali spesso trascurate e sconosciute. È un film che artisticamente lamina la distanza tra l’interiore e il visibile, tra l’individuo e la comunità, facendo dell’esperienza individuale qualcosa di sociale e politico.
L’incontro con un cinema raro, imprescindibile, dirompente, insolito, necessario… poetico ma radicale, capace di guardare ai margini con estrema autenticità.
Un finale, due corpi, una liberazione, un atto agognato, dovuto.
La verità è che puoi diventare orfano ancora e ancora, infinite volte. La verità è che succederà. E il segreto è che farà sempre meno male, fino a che non sentirai più nulla. Fidati di me.
— Chuck Palahniuk