Le vere cospirazioni sono pratiche espresse attraverso legge, politica, tecnologia e finanza... queste vengono più spesso annunciate in pubblico, eppure non competono con le teorie digitali. Questo è il nostro problema: le vere 'pratiche di cospirazione' incontrano meno opposizione.
Edward Snowden
Con
Bugonia Yorgos Lanthimos continua il suo laboratorio sulla fabbrica delle alienzazioni e sulle nostre superstizioni moderne, ma sposta l’asse dal grottesco domestico all’ossessione collettiva. Il punto di partenza è semplice e allucinato: due giovani convinti che una top executive sia in realtà un’aliena la sequestrano per “salvare” il pianeta. Che sia un remake in lingua inglese del cult coreano
Save the Green Planet! conta fino a un certo punto: Lanthimos lo piega al suo lessico di risate strozzate e ferocia morale, innestando il tema della cospirazione in una camera di tortura che assomiglia molto al nostro spazio informativo quotidiano.
Il titolo rimanda a un mito antico, nato in Grecia ma con radici ancora più remote, affondate nelle osservazioni di Egizi e Cinesi: la generazione di insetti dalla carcassa di un bue morto. Un’immagine di vita che scaturisce dal putrido, suggestione che attraversò secoli e culture, fino a essere narrata da Virgilio nel IV libro delle Georgiche, dove Aristeo, dopo tragedie e perdite, riesce a ottenere la rinascita delle api attraverso un rituale di sacrificio. Questo mito della “bugonia”, messo in discussione soltanto nel XVII secolo con la confutazione della teoria della generazione spontanea, diventa qui allegoria attuale. Traslato nell’oggi, è la metafora perfetta di come le teorie del complotto pullulino da carcasse simboliche — tra tecnologia fuori controllo, guerra, crisi climatica — e di come producano un’operosità febbrile e autodistruttiva. Lanthimos non si limita a descriverle: le mette in forma rituale, come se filmare fosse un esorcismo imperfetto.
Emma Stone, qui CEO farmaceutica dal sorriso tagliente e dagli impulsi indecifrabili, ritrova il regista per la quarta volta e firma anche da produttrice: il personaggio che le viene cucito addosso è una superficie lucidissima, liscia come vetro, un vestito elegantissimo su cui gli aguzzini proiettano credenze, fantasmi, fame di senso. Stone gioca di sottrazione, virando la vulnerabilità in zona minacciosa: basta un’inflessione per insinuare il dubbio che l’“alieno” non sia lei ma l’ideologia che la circonda. Gli echi di fantascienza lavorano in trasparenza, più concettuali che decorativi; ciò che resta è l’oscillazione instabile tra farsa nera e esperimento etico.
Ed è in questo ecosistema claustrofobico che il film costruisce la sua forza: i cospiratori, la folla anonima, i media che manipolano, la psicosi che corrode, l’alimentazione che diventa ulteriore campo di battaglia, la mancanza di punti di riferimento che non siano deliranti. Tutti cercano un appiglio, vero o falso non importa: ciò che conta è ancorarsi a una convinzione, mentre il potere continua a tessere vittime fisiche e psicologiche. Qui il rapimento della CEO assume un peso ulteriore: non solo un delirio di persecuzione, ma il riflesso di un trauma reale, una ferita che precede la paranoia e che la giustifica.
Visivamente Bugonia scommette di nuovo sull’occhio di Robbie Ryan: luce lattiginosa, inquadrature che tagliano i volti come piastrelle, geometrie domestiche trasformate in trappole. Il montaggio affila la dinamica prigioniero–carceriere in una partitura di ribaltamenti dove le certezze si sbriciolano a colpi di dettagli (una rasatura in scena, un sussurro, una pausa troppo lunga). La partitura disturbante di Jerskin Fendrix, invasiva, serpeggia come un dubbio: non esplode, corrode. Tutto concorre a un umore da esperimento clinico che, quando scoppia il riso, fa male come una smorfia amara.
Il protagonista finisce per essere il nostro specchio più spiacevole: un apicoltore ossessionato che parla con l’urgenza dei “risvegliati” e che tuttavia desidera, sotto sotto, una narrazione che lo assolva. Delbis gli fa da controcanto con un’insicurezza che scivola di continuo in complicità: Lanthimos usa il loro duo per mappare il contagio emotivo della credenza, come se l’aria stessa fosse carica di spore interpretative. Quando la violenza arriva (e arriva), non è uno shock: è la sedimentazione naturale di un ambiente saturo e oltremodo alienato.
La “realtà”, qui, non è il fuori dalla porta ma il terreno d’indagine. Nella conferenza stampa veneziana il regista ha insistito su quanto il film non sia distopico ma aderente al presente: IA, disinformazione, anestesia collettiva. Il sequestro allora diventa un teatro di verifica: chi interroga chi? in base a quali prove? con quali rituali di purificazione? Il cinema di Lanthimos, da
Dogtooth a
The Lobster fino a
Kinds of Kindness, ama incastonare norme arbitrarie per far emergere il mostro sociale;
Bugonia le aggiorna all’era in cui ogni timeline è una stanza di interrogatorio.
Se qualcosa si può imputare al film è la occasionale compiacenza nei giochi di potere verbali: a tratti Lanthimos sembra gustare più il meccanismo che la sua posta, e alcune svolte si evidenzia l’ambiguità. L’estremismo della operazione convince, soprattutto quando la messa in scena si restringe fino a sfiorare l’astrazione e Stone, impenetrabile, diventa icona di uno sguardo che ci guarda mentre lo guardiamo. In quell’istante la domanda sul “vero alieno” cessa di essere narrativa e si fa speculativa — un riflesso che non consola.
Bugonia più che un rito apotropaico è un divertente mantra dell’apocalisse o fine del mondo che la si voglia chiamare… un oracolo di Delfi, la sindrome di Cassandra.
Per tempi saturi di spiegazioni: una commedia nera che mette il corpo sul tavolo operatorio e chiede quale storia — e quale mostro — stiamo nutrendo. Imperfetto, spigoloso, ma necessario come un taglio d’aria in una stanza senza finestre.
Il finale al ritmo di “Where Have All The Flowers Gone” scritta da Pete Seeger ( testo da leggere e ascoltare) a suo tempo cantata da Joan Baez e anche da Marlene Dietrich, è oltre qualunque aspettativa: il pulsante è OFF, le immagini quadri contemporanei di una fine sublime e catartica.
Un modo sicuro di indurre la gente a credere a cose false è la frequente ripetizione, perché la familiarità non si distingue facilmente dalla verità.
Daniel Kahneman