“Il senso della vita è la cosa più urgente, eppure è la più inutile delle domande.”
( A.Camus)
Non tanto un adattamento quanto una lenta immersione nell’enigma umano che Lo straniero custodisce. Meursault, la creatura letteraria che Albert Camus aveva consegnato al Novecento come incarnazione dell’assurdo, torna sullo schermo come un corpo opaco, attraversato da una neutralità che inquieta più della colpa stessa.
Il film restituisce la sua condizione di uomo che non sceglie, o meglio, che vive sotto il segno dell’impossibilità della scelta. Non perché sia vile o perversamente indifferente, ma perché il vuoto che lo abita annulla ogni orizzonte di significato. Meursault non è protagonista, non è eroe né antieroe: è spettatore della propria vita, un’anonimia ambulante, un essere che ripete la formula del “non so” come unico modo per dire l’impossibile. In lui, la mancanza di emozioni non è calcolo narcisistico né sadica freddezza: è malinconia metafisica, è il riflesso di un vivere che si rivela insensato e irrimediabilmente privo di direzione. E, al tempo stesso, Meursault rappresenta insieme il vuoto e l’impossibilità di raccontare e raccontarsi menzogne: la sua trasparenza è così radicale da condannarlo a una confusione esistenziale che nessuno può condividere, e a un’incomprensione tanto generale quanto universale.
Ozon sottolinea la dimensione paradossale di questa figura: condannata non solo da un tribunale umano, ma già da se stessa, perché incapace di aderire a ciò che il mondo considera vita. La sua apatia non è fuga ma destino: il silenzio interiore che si allunga su ogni gesto, dall’amore ridotto a casualità fino all’omicidio che accade come un incidente ottuso, senza giustificazione né premeditazione.
E qui nasce la domanda che la regia ci restituisce, più lancinante della colpa stessa: quale responsabilità attribuire a un uomo che non rintraccia alcun senso nell’esistenza? È colpevole, o è semplicemente il testimone estremo di una condizione universale che tutti vorremmo eludere? Meursault, privo di interesse per gli altri come per se stesso, è forse meno libero di chiunque altro, e proprio per questo diventa figura di una verità più radicale: quella che non c’è scelta, se non l’accettazione del vuoto.
È fondamentale notare come Ozon abbia scelto di attenersi in modo rigoroso e rispettoso al testo camusiano. Non si è concesso deviazioni arbitrarie né contaminazioni indebite: un atto di fedeltà che appare non solo necessario ma addirittura doveroso. Sarebbe stato imperdonabile, infatti, piegare a esigenze spettacolari o attualizzanti un romanzo che già nella sua scrittura originaria possiede un’assoluta contemporaneità. Camus ha saputo raccontare l’assurdità della vita con una lucidità che non ha perso nulla della propria forza dirompente; per questo, l’opera non esigeva adattamenti o travestimenti, ma piuttosto un rispetto radicale. Ozon ha colto tale necessità e ne ha fatto la sua bussola: rappresentare senza stravolgere, dare immagine senza tradire la parola, restituire la complessità senza semplificarla. In questa fedeltà si rivela la grandezza del progetto: non imitazione passiva, ma adesione consapevole alla straordinarietà del racconto camusiano, un atto di interpretazione che diventa al tempo stesso omaggio e custodia.
Lo sguardo sofisticato e tagliente di Ozon trasforma così il romanzo di Camus in un prisma contemporaneo. Non ci offre consolazioni, non ci restituisce la catarsi: ci lascia davanti a un uomo che non crede, non ama, non spera. Un uomo che vive senza chiedere nulla al mondo, se non il permesso di esistere nel suo silenzio. E che infine ci costringe a interrogarci se siamo davvero liberi, o solo fantasmi che recitano la parte della libertà mentre il nulla ci precede e ci attende.
La risposta è evidente.
“Il mondo in sé non è ragionevole; questo è tutto ciò che si può dire.”
(A. Camus)